L’approvazione
al Senato della legge finanziaria ha scritto in qualche
modo la parola “fine” ad una fase politica caratterizzata
dalle scommesse sulla tenuta della maggioranza sul
passaggio più delicato per ogni esecutivo, l’approvazione
della legge di bilancio. Oltre settecento votazioni hanno
sancito la tenuta della maggioranza governativa. Dunque il
governo, pur incassando l’addio di Lamberto Dini, che
presumibilmente cercherà un passaggio sull’altra sponda
con i due naufraghi al seguito, potrà rinviare ad altri
provvedimenti l’ansia da numeri. Lo spettro dell’esercizio
provvisorio, vero e proprio incubo per ogni esecutivo, è
stato quindi riportato allo stadio di scampato pericolo.
Anzi, il fatto che la Finanziaria sia passata senza dover
ricorrere al voto di fiducia, pur potendo contare solo su
qualche voto di maggioranza, rappresenta una oggettiva
dimostrazione di forza da parte del governo Prodi. Si deve
infatti ricordare che il governo Berlusconi, che contava
su una maggioranza schiacciante di parlamentari, fu
costretto a porre la fiducia per vedere approvata la sua
legge di bilancio. Già, Berlusconi. E’ lui il grande
sconfitto di questa fase politica.
Il suo tentativo di dare una “spallata” al governo Prodi è
risultato essere l’ennesimo colpo a vuoto. Ha seguito i
precedenti tentativi falliti di “spallate” con il
referendum e con le tornate di amministrative. Ma prima
che una sconfitta politica, quella di Berlusconi è la
disfatta di un leader, la rappresentazione della nudità
del re. Lo spettacolo che Berlusconi ha messo in scena
nelle scorse settimane è lo specchio avvilente del degrado
della politica italiana, con la sua residenza di palazzo
Grazioli trasformata in un suk. Nell’indifferenza generale
ha provato a comprare senatori, offrendo qualunque cosa
pur di poter confermare le sue previsioni circa la data e
l’ora nelle quali sarebbe caduto il governo. A metà tra il
mago Otelma e l’affarista, Berlusconi ha dimostrato
fondamentalmente una cosa: che la sua capacità di
attrazione è molto ridotta rispetto al passato e che al
suo ritorno a Palazzo Chigi non crede più nessuno, a
cominciare dai suoi alleati.
Quello che Berlusconi ha perso, infatti, molto più che
l’ennesima battaglia ed un’utile occasione per
risparmiarsi figuracce a tutto andare, è stato il
riconoscimento indiscusso della sua leadership dai
dirigenti della destra italiana. A cominciare da Fini, che
con una lettera durissima pubblicata dal Corriere
della sera, gli ha dapprima addossato la sconfitta
dell’opposizione, rinfacciandogli il posizionamento della
destra sul terreno della contrapposizione in aula e, più
in generale, sul rifiuto del dialogo con il centrosinistra
sulle riforme. Ambedue i passaggi della strategia del
Cavaliere hanno, secondo Fini, Casini e la stessa Lega, un
difetto di lettura dello scenario presente e futuro del
quadro politico italiano.
Checché ne dica Berlusconi, infatti, così come la crisi di
consensi dell’Esecutivo non si traduce in aumento di
consensi per la Casa delle Libertà – e già questo dovrebbe
fornire spunti di riflessione non banali – anche sul piano
parlamentare, l’idea di un ritorno alle urne non appare
maggioritaria, nonostante le defezioni che colpiscono la
maggioranza governativa. Per questo, passato lo scoglio
della Finanziaria, la destra non berlusconiana trova
terreno fertile per riannodare i fili del dialogo
parlamentare con l’Unione sul tema delle riforme, prima
fra tutte quella elettorale. I voti in Commissione Affari
Costituzionali, del resto, lo avevano già fatto intendere
con chiarezza.
La Casa delle Libertà, almeno per come si é manifestata
finora, sembra un discorso ormai archiviato per il leader
di An, che punta decisamente verso una presa di distanza
da Berlusconi, prima che da Forza Italia. E Casini e
Bossi, pur con accenti diversi (ma non inconciliabili) con
quelli di An sul sistema da scegliere - vedono
nell’improcrastinabile riforma del sistema elettorale il
percorso che può tenere insieme sia la possibilità di
assegnare un quadro di stabilità alle prossime maggioranza
di governo, sia il riassetto generale della destra
italiana. Riassetto che, al netto delle chiacchiere, si
fonda sulla leadership del centrodestra e sulla sua linea
politica, anche in considerazione della capacità di
attrattiva dei settori moderati che non sceglieranno il
PD. Rispetto a Bossi e Casini, Fini ha il vantaggio di
poter giocare la carta del referendum elettorale come asso
nella manica nelle trattative; anche per questo un ritorno
alle urne, che avrebbe impedito lo svolgimento del
referendum, non era la strada che An si prefiggeva.
Ma Casini e Bossi possono però contare sull’offerta di
dialogo di Veltroni, che prefigura un sistema elettorale
sul modello tedesco con venature “spagnole”, che
tranquillizzerebbero il Carroccio ed offrirebbero all’Udc
il terreno per la ricomposizione democristiana, dal
momento che - in assenza di premio di maggioranza – un
centro democristiano che viaggiasse tra l’8 e il 10 per
cento, potrebbe risultare l’ago della bilancia in un
Parlamento inevitabilmente diviso in due. Berlusconi ha
reagito alla lettera di Fini sostenendo che, a suo avviso,
la Cdl deve rimanere così com’é. Ma la monarchia di Arcore
appare in difficoltà. O il regno si avvia verso la
successione non dinastica o il cavaliere rischia di essere
disarcionato.
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