Per il reclutamento dei professori universitari, fino
alla riforma del 1998 la legge italiana prevedeva che si svolgesse un
concorso unico nazionale ad anni alterni, un anno per quelli di prima
fascia e nell’altro anno per quello degli associati. Quanto alla commissione
giudicatrice, per la prima fascia, tutti i professori della materia erano
chiamati a eleggere dieci possibili commissari, tra i quali venivano
sorteggiati i cinque membri. Per gli associati, il sorteggio dei possibili
commissari precedeva l’elezione. Alle singole facoltà interessate era data
poi la scelta tra i vincitori per la copertura delle cattedre messe a
concorso.
Il circolo vizioso del passato
Perché quel sistema funzionasse bene (nei limiti consentiti dal contesto
del sistema universitario italiano), mancava solo una regola: scioglimento
automatico della commissione che non avesse esaurito i propri lavori entro
tre o quattro mesi; ed elezione di una nuova, con esclusione dall’elettorato
passivo per i vecchi commissari.
Poiché questa regola non c’era, i lavori delle commissioni erano sovente
interminabili, essendo intralciati dai veti incrociati e dai complessi
giochi di alleanze e contro-alleanze accademiche in cui i commissari
venivano invischiati. I concorsi duravano anni. Così, a ogni nuovo concorso,
il numero di posti in palio era molto elevato; il che contribuiva
ulteriormente a rallentare i lavori. L’intervallo lungo tra un concorso e
l’altro e il numero abnorme dei posti in palio contribuivano a drammatizzare
l’importanza del concorso e a rallentarne lo svolgimento, in un evidente
circolo vizioso. La drammatizzazione portava poi con sé un altissimo
numero di ricorsi dei candidati perdenti al Tribunale amministrativo, dai
quali il ministro dell’Istruzione era letteralmente sommerso.
I gravi difetti dell’attuale sistema
Questa alluvione di ricorsi giudiziali è stata una ragione non
secondaria della scelta del ministro Berlinguer di decentrare i concorsi:
con la riforma del 1998 sono ora i singoli atenei a bandirli (e quindi a
doversi eventualmente difendere davanti al Tar). Ma il nuovo sistema ha
due difetti gravissimi. In primo luogo, garantisce un forte
privilegio al candidato appartenente all’università che bandisce il
concorso, alla quale compete la nomina di uno dei membri della commissione;
è rarissimo, infatti, che il "candidato interno" risulti perdente; l’unico
dato incerto, quando è incerto, è il nome del secondo vincitore, destinato a
essere chiamato altrove. Inoltre, il nuovo sistema prevede l’elezione di
tante commissioni quanti sono i concorsi banditi dagli atenei: ciò che
comporta un gran numero di voti e di candidature, con corrispondente
enorme lavorio elettorale (praticamente ininterrotto: le "tornate"
elettorali sono due, tre, persino quattro all’anno), seguito da giochi
estremamente complessi tra le commissioni di concorsi diversi cui
partecipano contemporaneamente gli stessi candidati. E poiché per questo
lavorio elettorale e post-elettorale sono normalmente più disponibili i
professori che si dedicano meno intensamente alla ricerca e
all’insegnamento, il sistema presenta un alto rischio di favorire nettamente
gli interessi di questi ultimi rispetto a quelli dei professori migliori.
Questo spiega e in qualche misura giustifica la prassi, invalsa in numerosi
comparti accademici, di affidare a uno o più professori anziani il compito
di "dirigere il traffico" concorsuale, raccogliendo le candidature,
valutandone il merito, stabilendo una sorta di graduatoria di precedenza
ragionata e proponendo alla comunità accademica le corrispondenti
indicazioni elettorali per la costituzione delle commissioni. Anche se
comprensibile – e, dove funziona in modo pulito, giustificabile come male
minore – questa prassi significa che, in realtà, i concorsi tendono a
ridursi a una formalità vuota: la vera sede in cui si decidono i vincitori è
l’organo informale di "coordinamento". Quando poi il coordinatore –
rafforzato dagli alti costi di transazione che si impongono a chi
tenti di scalzarlo dalla sua posizione – si trasforma in dittatore,
minacciando e applicando sanzioni contro chi disattende le sue indicazioni,
si verifica la grave degenerazione del sistema denunciata da Gino Giugni due
settimane or sono. L’ordinamento statale, come ci ha insegnato Ronald Coase,
serve essenzialmente per ridurre i costi di transazione. Quando esso, invece
di ridurli, li moltiplica, tende a nascere spontaneamente qualche altro
ordinamento finalizzato a ridurre quei costi, che si sovrappone
all’ordinamento statale. Con risultati sovente pessimi: la spontaneità del
fenomeno non costituisce affatto una garanzia di bontà del rimedio.
Una possibile soluzione
Alla radice di questi mali del nostro sistema universitario sta, certo,
il "valore legale" della laurea che toglie gran parte del significato alla
concorrenza tra gli atenei; e a questo si accompagnano altri difetti
strutturali che non si eliminano con la sola riforma – per quanto ben
congegnata - del reclutamento dei docenti (per un disegno di riforma
organica vedi qui sotto
l'articolo di Gagliarducci, Ichino, Peri, Perotti). Ma il sistema di
reclutamento oggi in vigore fa troppi danni per essere lasciato sopravvivere
anche solo per poco. Nel contesto attuale, forse la scelta migliore è quella
di un ritorno al sistema precedente al 1998 per i professori di prima
fascia, con il correttivo di cui si è detto sopra: i professori di ciascuna
materia votano una volta all’anno e una sola, per una commissione composta
da membri non rieleggibili nella tornata successiva; la commissione designa
ogni anno un piccolo numero di idonei alla cattedra; e se non lo fa entro
tre mesi decade automaticamente. Libero poi ciascun ateneo di chiamare
uno degli idonei, se concorda con la commissione nel ritenerlo tale, anche
rispetto ai propri standard, alle proprie esigenze didattiche e ai propri
programmi di ricerca.
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