Molte delle
polemiche relative al "valore legale" della laurea, e alla sua
eventuale abolizione, si basano su una analisi errata, o comunque
incompleta, del significato di tale termine.
Condizione necessaria, ma non sufficiente
La laurea è solo la condizione necessaria (e non
sufficiente) per partecipare ad alcune selezioni concorsuali, o analoghe,
nel pubblico impiego, nonché, nei casi delle professioni
regolamentate, per accedere alle procedure di ammissione ai relativi albi.
Nella contrattazione nazionale relativa all’impiego privato, inoltre, può
essere presa in considerazione al fine di stabilire alcuni livelli minimi di
inquadramento per chi ne è in possesso.
Di per sé, il valore legale è solo questo. Peraltro, spesso decreti o
circolari (per il pubblico impiego) e normative degli ordini (per le
professioni) sono andati ben oltre, attribuendo un peso determinante agli
aspetti formali del titolo posseduto (la denominazione esatta, la votazione
in centodecimi). La discussione deve allora, anzitutto, individuare queste
forzature.
Tutte le procedure di assunzione combinano, comunque, una parte connessa al
curricolo degli studi con una valutazione ad hoc, normativamente
formalizzata (pubblico impiego e professioni) o determinata da regole
interne (impiego privato). Quest’ultima è sempre presente, ed è per questo
che il titolo di laurea non è mai condizione sufficiente. Variano, peraltro,
il peso attribuito alle due parti e anche le modalità con le quali i
risultati degli studi vengono considerati. Il discorso deve essere
perciò molto articolato.
Ho parlato di risultati degli studi, e non di "titolo di studio", perché le
informazioni che si possono utilizzare sono molto più ampie che non la mera
votazione di laurea. Si può considerare il peso che hanno avuto nel
curricolo alcune aree di studio particolarmente rilevanti ai fini delle
competenze richieste, nonché le specifiche valutazioni ottenute in tali
aree; si può considerare il tempo impiegato; si può considerare la stessa
votazione finale non in assoluto, ma comparativamente (confrontandola con il
voto medio, o equivalentemente collocandola nei quartili relativi alla
distribuzione delle votazioni).
Del tutto negativa è invece la specificazione troppo esclusiva della
denominazione del titolo di laurea. Nel vecchio ordinamento le
denominazioni erano introdotte legislativamente, e non si contano i casi in
cui pressioni corporative hanno ottenuto "leggine" con nuove dizioni
(attivate magari solo in una o in pochissime università), con la riserva di
alcune funzioni ai laureati specifici; iniziava poi la trafila delle
equipollenze. Nel nuovo ordinamento fa testo non la denominazione data
dall’ateneo bensì la "classe", ed è già meglio; la determinazione delle
classi, peraltro, è dovuta quasi sempre alla volontà di caratterizzare aree
accademiche, non profili professionali, sicché esse hanno in molti casi alti
indici di sovrapposizione tra loro. La riserva di diritti ai laureati di una
classe e non di un’altra è allora immotivata. Sia per il pubblico impiego,
sia per le professioni regolamentate, la pretesa di specifiche denominazioni
corrisponde alla volontà di chiudere corporativamente; la battaglia per
aprire significa puntare all’ampliamento dei titoli ammessi.
Selezione senza il valore legale
La selezione, dunque, è sempre determinata da un mix
tra (a) valutazione degli studi e (b) prove
specifiche, più o meno formalizzate (elaborati scritti, test, colloqui,
stage). La cancellazione del valore legale significherebbe che chiunque
può presentarsi, sicché chi determina e valuta gli elementi (b)
ha pieni poteri; gli effetti possono essere tutt’altro che positivi.
Si pensi al pubblico impiego. Leggine e contratti hanno spesso consentito
che nei concorsi interni il titolo di studio fosse sostituito da anzianità
di servizio. In altri casi, si sono stabilizzate posizioni precarie per le
quali inizialmente non era stato richiesto il titolo. In altri ancora, senza
giungere all’estremo dell’assenza del titolo, i bandi hanno fatto pesare
poco (a), favorendo con (b) una ampia
discrezionalità. In tutte queste situazioni la qualità
dell’amministrazione non è certo migliorata.
L’idea di dare pieni poteri al clientelismo nell’assunzione nelle pubbliche
amministrazioni e al corporativismo nell’accesso alle professioni deve
perciò spaventare. Senza giungere agli estremi più deplorevoli, e
considerando anche l’impiego privato, è comunque difficile ritenere che le
informazioni acquisite tramite prove episodiche organizzate ad hoc o
colloqui possano sostituire del tutto - anziché, come è sacrosanto,
integrare - la ricchezza di valutazioni e la pluralità di giudici che sta
dietro un curricolo di studi.
I sostenitori dell’abolizione del valore legale della laurea motivano la
loro posizione, prevalentemente se non esclusivamente, con un richiamo alla
competitività tra gli atenei: senza la rendita di posizione
determinata dal valore legale, dicono, ci sarebbe un impulso a puntare sul
livello, sulla qualità, per acquistare prestigio. L’obiettivo è più che
apprezzabile, ma gli strumenti ai quali ricorrere sono altri: meccanismi di
valutazione, procedure di accreditamento, parametri per il finanziamento.
Un contributo essenziale può derivare dalla trasparenza, dall’ampia
pubblicità da dare agli esiti conseguiti dai laureati delle diverse sedi. Se
AlmaLaurea fosse generalizzata alla totalità delle università italiane, e
tutti sapessero quali sono i risultati raggiunti dai laureati dell’ateneo A
o dell’ateneo B, della classe di laurea X o di quella Y, si avrebbe uno
stimolo non solo alla competitività, ma anche a un migliore orientamento dei
giovani: obiettivo importante altrettanto, e forse più.
Quanto qui si è detto richiede non facili slogan, ma una strategia coerente
e impegnativa. Ancora una volta, vale la battuta secondo la quale si possono
anche ipotizzare soluzioni semplici per i problemi complessi, ma si tratta
abitualmente di ipotesi stupide.
|