Il disegno di legge sull’università
approvato dal Senato (a) introduce concorsi nazionali d’idoneità per
professore associato e ordinario, (b) obbliga le università a
ricoprire i posti di ruolo mediante chiamata di idonei con procedura
localmente determinata e pubblicità degli atti, (c) obbliga ogni
professore a insegnare almeno 120 ore l’anno, (d) consente alle
università di dotarsi di un corpo docente composto di non idonei
(giovani ricercatori o soggetti qualificati) mediante contratti
triennali di diritto privato rinnovabili di durata fino a un massimo
di sei anni, (e) abolisce il ruolo di ricercatore a decorrere dal
2013.
Un risultato deludente
Gli incentivi per migliorare la qualità della ricerca e della
didattica sono carenti. Una precedente versione del decreto
prevedeva l’istituzione di un sistema nazionale di valutazione
dei docenti, incluso il blocco della progressione di carriera
per chi fosse valutato negativamente. Questa parte è assente nel Ddl
approvato dal Senato.
Si persevera in un atteggiamento discriminatorio nei confronti dei
giovani e degli esterni, istituendo (nel comma 4 sub b)
concorsi riservati ai professori con più di quindici anni di
servizio.
Si fa poco per garantire una retribuzione adeguata a chi accede alla
carriera accademica. Molti giovani sono giustamente preoccupati che
l’introduzione dei contratti di diritto privato, al posto
dell’assunzione con contratto pubblico, significhi abbassare i
livelli retributivi e aumentare i rischi per chi scegli la carriera
accademica. Da questo punto di vista, il disegno di legge non offre
assicurazioni. In esso è detto che "(...) il trattamento economico
di tali contratti, rapportato a quello degli attuali ricercatori
confermati, è determinato da ciascuna università nei limiti delle
compatibilità di bilancio e tenuto conto dei criteri generali
definiti con decreto del Miur, di concerto con il ministero
dell’Economia e delle finanze, sentito il ministro della Funzione
pubblica". Non è chiaro quali siano i margini di autonomia degli
atenei nella determinazione del trattamento economico dei
contrattisti.
Si propone il ritorno al concorso nazionale, sia pure nella
diversa formulazione di "concorso per idoneità", con il rischio di
rendere lente e farraginose le procedure per l’immissione in ruolo.
La soppressione degli attuali meccanismi concorsuali era
assolutamente necessaria. Essi hanno causato una promozione
generalizzata dei docenti alle fasce superiori (da ricercatore ad
associato e da associato a ordinario) mediante accordi poco
trasparenti tra commissari. Tuttavia, il ministro avrebbe fatto
meglio a concedere completa autonomia agli atenei sulle assunzioni
in ruolo, cercando, nel frattempo, di condizionare i finanziamenti
ministeriali a severi criteri qualitativi basati sulla produzione
scientifica e sulla didattica. L’esempio del Regno Unito
poteva offrire spunti interessanti.
Le cose da fare urgentemente
La verità è che le leggi nazionali servono a poco. La crisi
dell’università italiana (scarsa produttività scientifica, basso
numero di laureati e alti tassi di abbandono, distribuzione
inefficiente dei docenti tra sedi e discipline, invecchiamento
progressivo di professori e ricercatori, progressioni automatiche di
carriera) dipende dalla mancanza di incentivi e da una mentalità
assistenziale. Quest’ultima è alimentata dal valore legale della
laurea, dalla dipendenza finanziaria degli atenei e dai troppi
vincoli legislativi.
Il Governo avrebbe dovuto puntare su pochi obiettivi fondamentali:
(a) eliminare i tetti alle tasse di iscrizione costringendo gli
atenei a reperire più fondi sul mercato; (b) compensare questa
misura con l’introduzione di borse di studio (o "voucher") basate
sul merito e sul reddito; (c) determinare i finanziamenti alle
università sulla base di parametri di produttività ed efficienza;
(d) abolire il valore legale della laurea; (e) concedere agli atenei
completa autonomia in merito ai trattamenti retributivi e ai criteri
di assunzione.
Critiche sbagliate
Se il Ddl Moratti delude, non meno deludente è la reazione del
corpo accademico.
La Conferenza dei rettori (Crui) si oppone strenuamente a
questa legge, insieme alle associazioni dei ricercatori e ai
sindacati. Si afferma, principalmente, che il ruolo di ricercatore
non dovrebbe essere soppresso, che il ricorso a contratti di diritto
privato a tempo determinato produrrebbe uno scadimento della qualità
della ricerca o dell’insegnamento e si chiedono a gran voce
l’introduzione di una terza fascia di docenza e "adeguati
finanziamenti".
L’introduzione di una terza fascia di docenza non risolve
alcun problema. Al contrario, la soppressione del ruolo di
ricercatore dovrebbe essere accolta con favore. Infatti,
l’assunzione a tempo indeterminato (il posto a vita) per chi deve
ancora dimostrare capacità di ricerca e non è sottoposto ai
"normali" obblighi didattici, è un’anomalia assoluta nel panorama
internazionale. Un periodo di prova per i neo assunti, prima di una
stabilizzazione definitiva, è prassi comune in qualunque settore
economico e in qualunque università del mondo.
Le garanzie offerte dal contratto pubblico a tempo indeterminato ha
l’effetto perverso di fornire un alibi alle commissioni di concorso
per favorire i candidati anziani. Dato che i contratti dei
ricercatori non hanno termine, non "costa" molto bocciare un giovane
ricercatore bravo in cambio della promozione di un ricercatore
anziano e meno bravo. Infatti, il ricercatore bravo, proprio perché
giovane, potrà sempre aspettare il prossimo concorso e godere, nel
frattempo, degli aumenti automatici di stipendio. Tutto ciò implica
fatalmente l’aumento dell’età media dei ricercatori e la scarsità di
posti per i giovani. Secondo i dati del Comitato nazionale per la
valutazione del sistema universitario, nel 2001 il 47 per cento dei
ricercatori aveva più di quarantacinque anni. Molti di essi svolgono
una pesante attività didattica nella speranza di ottenere una
promozione, molti altri (generalmente i più anziani) non hanno più
ambizioni di carriera e frequentano poco le aule universitarie. In
entrambi i casi è palesemente tradito lo spirito della legge che
istituiva la figura del ricercatore. Quest’ultimo doveva essere
giovane, prevalentemente impegnato nella ricerca e in transito verso
lo stato di professore universitario.
Inoltre, siamo proprio sicuri che i nostri organi accademici abbiano
a cuore la valorizzazione e la permanenza della figura del
ricercatore? Tra il 1998 e il 2004, la quota dei ricercatori è
passata dal 40,1 al 37,2 per cento, mentre la quota dei professori
di prima fascia dal 24,9 al 31,2 per cento. In termini assoluti, dal
1999 al 2003 il numero di professori di prima fascia è aumentato del
39 per cento. Il 90 per cento di queste promozioni sono avvenute "in
sede", cioè hanno riguardato docenti che erano associati nella
stessa università dove sono diventati ordinari. Ciò vuol dire che le
promozioni non hanno dato luogo all’offerta di corsi aggiuntivi e
non erano motivate dalla necessità di migliorare la produzione
scientifica. In altre parole, i rettori hanno colpevolmente
utilizzato la propria autonomia per accontentare i docenti dei
propri atenei chiudendo le porte a chi sta fuori.
Chiedere più soldi?
In Italia lo Stato spende, per gli studi universitari, una quota
del Pil inferiore alla media dei paesi Ocse. Tuttavia, un esame
attento dei dati rivela che i problemi dell’università italiana non
derivano dalla mancanza di fondi.
Innanzitutto, bisogna notare che la spesa per studente (per
la formazione universitaria) in Italia è solo leggermente inferiore
a quella di altri paesi Ocse, dove la qualità della formazione e
della ricerca è senza dubbio superiore. Secondo i dati Ocse del
2003, l’Italia spende circa 8mila dollari contro gli 8.300 della
Francia, i 9.600 del Regno Unito e i 10.800 della Germania (valori
espressi in parità di potere d’acquisto).
In secondo luogo, l’Italia spende male. La spesa totale per
l’istruzione universitaria per ogni laureato nel 2001 era pari a
55.964 euro in Italia, contro i 26.937 della Francia e i 30.072 del
Regno Unito. Nello stesso anno, la spesa per ogni dieci
pubblicazioni scientifiche era pari a 36.878 in Italia, contro i
32.397 della Francia e i 27.573 del regno Unito. Una riforma del
sistema universitario italiano dovrebbe dunque partire dal
riconoscimento che non si tratta di aumentare i finanziamenti,
quanto rifondare i meccanismi organizzativi.
La morale di questa storia è che la gestione autonoma delle
risorse da parte degli atenei è principalmente guidata da
interessi corporativi. I senati accademici e i consigli di facoltà,
organi perfettamente democratici ed elettivi, rispondono
principalmente agli interessi dei professori universitari, e le
decisioni non sono disciplinate da criteri di efficienza.
Il disegno di legge Moratti fa poco per risolvere questo problema,
ma i documenti della Crui sembrano ignorare totalmente la questione.
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