Il nodo che frena l’efficienza
della pubblica amministrazione è insito nell’organizzazione del
lavoro che caratterizza il settore pubblico, diversa da quella del
settore privato.
Dirigenti pubblici e privati
Dopo la riforma Bassanini, il contratto di lavoro dei dirigenti
pubblici è tipo privatistico. Tuttavia, è tale solo in maniera formale,
in quanto non prevede né gli incentivi né gli strumenti propri del
settore privato. In altre parole, se gli stipendi sono spesso
paragonabili a quelli del settore privato, i dirigenti pubblici non
hanno le stesse responsabilità. Non per loro colpa. La ragione è
semplicemente che in primo luogo il settore pubblico non è esposto alla
legge della concorrenza, un formidabile incentivo all’impegno
individuale. Secondariamente, non vigono le stesse discipline di
assunzione e licenziamento e le politiche di premi salariali del
settore privato, entrambi straordinari strumenti di direzione e di
motivazione del personale.
Il risultato è che i dirigenti pubblici spesso non possono organizzare
liberamente i dipartimenti. In particolare, non possono assumere chi
vogliono e non possono licenziare i dipendenti che non ritengono adatti
alle loro mansioni. Ma anche se fosse data loro maggiore facoltà di
disporre delle risorse umane, i dirigenti non avrebbero gli incentivi
"giusti" a organizzarle efficientemente: non sono soggetti infatti ai
vincoli di rendimento come nel settore privato. D’altra parte, non è
possibile affidare ai dirigenti pubblici maggiori poteri, se non
rispondono del loro operato in termini verificabili.
Da Pisa all’Invalsi
Prendiamo il mondo della scuola. L’intento è di suggerire un
modo in cui, in un settore che produce un bene prettamente pubblico come
l’istruzione, si può tuttavia creare un sistema di incentivi e strumenti
per i dirigenti pubblici che porti a un miglioramento dei risultati.
Gli alunni della scuola italiana ottengono punteggi molto bassi nelle
indagini comparative internazionali Pisa (Programme for
International Student Assessment). L’Italia figura regolarmente vicino a
Turchia, Grecia e Messico. Il risultato non è dovuto a una spesa per
studente inferiore rispetto ad altri paesi, né al fatto che maestri e
professori sono
pagati meno dei colleghi di altre nazioni bensì a una scarsa
qualità della "produzione" scolastica. Intendiamoci subito, non è
colpa degli insegnanti, i quali spesso sono molto dediti al loro lavoro.
Il numero di docenti per studente è più alto in Italia che negli altri
paesi d’Europa ed esistono certamente insegnanti che non fanno il loro
lavoro rovinando così intere classi di studenti, tuttavia i nullafacenti
si trovano in ogni professione. Credo quindi che sia l’organizzazione
del lavoro che non dà gli incentivi giusti e gli strumenti necessari
ai dirigenti scolastici affinché possano migliorare i risultati della
scuola.
L’Invalsi, l’Istituto di valutazione nazionale scolastica, in questi
anni ha condotto test in tutti gli istituti scolastici d’Italia
(elementari, medie e superiori), somministrando a un campione casuale di
studenti un questionario a domande a risposta multipla. È così possibile
assegnare a tutte le scuole un punteggio che, per quanto imperfetto,
può essere preso come base di riferimento dei risultati raggiunti. Una
caratteristica importante del test è che contiene informazioni sulla
capacità di lettura dei testi e sulle conoscenze base di matematica
degli studenti e non misura soltanto le percentuali di promossi. Un
dato, quest’ultimo, che non necessariamente indica la qualità
dell’insegnamento, quanto piuttosto la volontà di promuovere degli
insegnanti e dei presidi.
Una valutazione da difendere
Gli operatori della scuola parlano spesso molto male della prova
dell’Invalsi perché non sarebbe stata somministrata con le dovute
attenzioni. Certamente, è possibile migliorare il test e la struttura
stessa dell’Invalsi. Tuttavia, a mio parere, il principio di un
esercizio di valutazione per ogni scuola deve essere difeso
strenuamente. E i risultati raggiunti dai singoli istituti potrebbero
essere utilizzati per valutare l’operato dei presidi.
Oggi i presidi, diecimila in tutta Italia, sono dirigenti pubblici
pagati circa il doppio dei docenti e privi di incarichi di insegnamento.
Sono manager con molti poteri amministrativi e di organizzazione
didattica. Ma non hanno né gli incentivi né gli strumenti per migliorare
i risultati degli istituti che dirigono. Non hanno strumenti
perché anche di fronte a insegnanti palesemente incapaci non possono
prendere provvedimenti immediati. Non hanno incentivi perché la
loro carriera e il loro stipendio non sono affatto legati ai risultati
della loro scuola. Per i dirigenti scolastici, i quali rimangono spesso
esposti al controllo politico, non esiste oggi alcun criterio di
valutazione. Trovarne di oggettivi, come il test di valutazione sui
risultati didattici, sarebbe nell’interesse di tutti, inclusi i presidi
stessi.
I dirigenti scolastici, infatti, avranno l’incentivo a migliorare i
risultati nelle loro scuole se sanno che il test sarà ripetuto ogni tre
anni e che se l’istituto ottiene un punteggio inferiore alla prova
precedente, sarà il preside a risponderne, perfino con il trasferimento
ad altro incarico.
Naturalmente, vi devono essere delle garanzie della correttezza
della valutazione. Per prima cosa, la somministrazione e la valutazione
dei test sarà affidata a una commissione esterna alla scuola in modo che
preside e insegnanti non possano influenzarne l’esito. Si dovrà inoltre
tenere conto che i risultati riflettono anche fattori esterni, quali il
contesto socio-economico di riferimento degli studenti iscritti.
Dovranno essere introdotti correttivi per impedire che vengano
attribuiti al dirigente e ai docenti risultati in realtà dovuti a
fattori al di fuori del loro controllo. Potremmo anche prevedere che il
nuovo test si tenga su due anni consecutivi per evitare che i risultati
siano frutto esclusivamente di un caso sfortunato.
Il punto cruciale è che il risultato del test si confronta con quello
della precedente prova nella stessa scuola. In altre parole, è
sufficiente che si migliori rispetto a sé stessi piuttosto che
relativamente ad altre scuole. Infatti, esistono differenze molto grandi
e preoccupanti tra diverse regioni d’Italia e tra scuole simili
all’interno della stessa regione ed è impensabile che si riducano
rapidamente. Le distanze tra i risultati dei diversi istituti si
ridurranno se l’incentivo a fare meglio vale fintanto che la scuola non
è tra le migliori del suo tipo in Italia.
A fronte di questa responsabilità sui risultati, dobbiamo dare ai
presidi maggiori strumenti di controllo. Ad esempio maggiori poteri di
decisione sui fondi di incentivo per gli insegnanti e sulle assunzioni
del personale di ruolo e supplente, oltre a maggiori poteri di
valutazione degli insegnanti.
Senza cambiamenti sostanziali dell’organizzazione del lavoro, qualunque
discorso sulla necessità di pagare meglio gli insegnanti o aumentare gli
investimenti in strutture e tecnologie rischia di rivelarsi uno
spreco di risorse.
La necessità di sottoporre anche gli impiegati pubblici a criteri di
valutazione stringenti è una battaglia culturale e politica di prima
grandezza e di massima urgenza. Migliorare il rendimento dell’istruzione
pubblica è l’unico modo per poterla difendere.
Trovo sorprendente che il ministro Fioroni, cui va dato merito di aver
reintrodotto la commissione esterna nell’esame di maturità, abbia
cancellato per i prossimi anni i test nelle scuole italiane e li abbia
sostituiti con prove a campione al fine di "valutare il sistema
scolastico nel suo complesso". Gli incentivi a migliorare i propri
risultati esistono in quanto la valutazione si applica singolarmente a
ogni scuola. Scompaiono se la valutazione avviene genericamente per il
sistema scolastico nazionale.
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