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09/09/2008 Il ministro Gelmini vuole reintrodurre il maestro unico

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Il ministro Gelmini vuole reintrodurre il maestro unico nella scuola elementare. In un sistema come quello italiano dove non è facile licenziare gli insegnanti scadenti, questo espone a seri rischi gli allievi. E perché ricorrere a un decreto quando sarebbe utile una discussione approfondita, scevra da condizionamenti ideologici?

09/09/2008 Elementare Gelmini! (Fausto Panunzi e Roberto Perotti, http://www.lavoce.info)

Pedagogisti e scienziati dell'educazione discutono da decenni vantaggi e svantaggi del maestro unico. Ed è vero, come dice Bossi, che "Se c'è un solo insegnante è più facile che si rovini il bambino". Ma sulla scuola bisogna comunque rifiutare l'immobilismo e intervenire per migliorarla. Tenendo conto del livello qualitativo attuale. Ecco in che modo.

Il provvedimento più rilevante tra quelli contenuti nel decreto legge che riforma la scuola primaria italiana è senza dubbio quello contenuto nell’articolo 4, in cui si prevede che “le istituzioni scolastiche costituiscono classi affidate ad un unico insegnante e funzionanti con orario di ventiquattro ore settimanali”. In altre parole, si torna al maestro unico e si riduce di tre ore l’attività didattica rispetto alle attuali 27 ore settimanali.

La motivazione classica per il maestro unico è stata bene riassunta dal ministro: “Un insegnante unico, o comunque prevalente, avrà maggiore attenzione per il bambino che apprende, saprà modulare e indirizzare la sua azione didattica tenendo conto delle diverse attitudini, interessi e capacità individuali.” Pedagogisti e scienziati dell’educazione discutono da decenni sui pro e contro del maestro unico per il processo di apprendimento, ed il dibattito non finirà mai. Ma c’è un aspetto chiaro del problema che il ministro ed il dibattito politico hanno largamente ignorato, e che è stato colto efficacemente dal Ministro Bossi: “Se c'è un solo insegnante è più facile che si rovini il bambino, se ci sono più insegnanti almeno qualcuno è buono". Mettere tutte le uova in un solo paniere presenta un rischio grave: un maestro inefficace didatticamente o incapace di motivare rischia di pregiudicare seriamente le basi di apprendimento dei suoi alunni per 5 anni, e tutta la loro vita scolastica futura. Può darsi che il maestro unico abbia le sue ragioni, ma sarebbe importante sapere se esse compensano questa obiezione a nostro avviso fondamentale, tanto più in un sistema come quello italiano dove non è possibile disfarsi dei maestri scadenti.
L’altra ovvia obiezione al maestro unico è la crescente domanda di classi a tempo pieno che proviene dalle famiglie italiane. Su questo il Ministro Gelmini ha rassicurato  mamme e papà. Basandosi su una simulazione di Tuttoscuola, il ministro ha affermato che il tempo pieno potrà essere incrementato del 50%, passando dalle attuali 34 mila fino a 50 mila classi. Secondo la simulazione di Tuttoscuola ciò implica una perdita di  circa 18 mila unità di personale. Al tempo stesso, però, i media hanno largamente riportato la notizia che i provvedimenti del ministro porterebbero nel complesso a un esubero di 83000 unità. Su quest’ultimo numero si è fatta molta confusione: non è chiaro da dove esso provenga, e se sia stato fatto proprio dal governo (certamente esso non è stato smentito, e i nostri tentativi di ottenere numeri e calcoli dal ministero non hanno sortito effetto) Prendendo per buono dunque il target di 83000 esuberi, ed anche aggiungendo i relativi maestri di inglese, religione e educazione fisica, il salto da 18 a 83 mila è impossibile da ottenere. Il ministro vorrebbe dunque risparmiare, ottenere (forse) 83000 esuberi, ed aumentare le classi a tempo pieno: per essere credibile, sarebbe opportuno che rendesse pubblici i calcoli dietro a dei numeri così apparentemente difficili da conciliare.
Se ci sono parecchi motivi per criticare la riforma Gelmini, questo tuttavia non può essere un alibi per l’immobilismo o per un’acritica difesa dello status quo. Ad esempio, Veltroni ha dichiarato che [non si capisce perché si dovrebbe] "toccare l'unica parte del sistema formativo italiano che funziona, ossia la scuola elementare”. Alberto Campoloni sul sito del Servizio di Informazione Religiosa della CEI ha affermato “[…] in un contesto di molteplicità di saperi, la pluralità di maestre e il lavoro d'equipe possono garantire maggiore apprendimento per i bambini. La scuola italiana ha puntato in questa direzione, e proprio al livello elementare ha raccolto consensi e ottimi risultati.  Ma allora perché cambiare?").

Queste e altre innumerevoli affermazioni di tenore simile sembrano sottintendere affermazioni diverse, che è bene analizzare individualmente.

1) La scuola elementare italiana ha una performance migliore, rispetto alla media internazionale, delle scuole superiori.

La risposta è probabilmente sì, se non altro perché sappiamo dai dati PISA che la scuola superiore italiana ha una performance disastrosa.

2) La scuola elementare italiana è migliore di quella della maggior parte dei paesi industrializzati.

L’unico modo per rispondere rigorosamente a questa domanda è usare le valutazioni scientifiche internazionali. Tali valutazioni esistono, oltre che per la scuola superiore, anche per la scuola elementare. Nel 2001 l’indagine PIRLS ha esaminato la capacità di lettura degli studenti di quarta elementare in 35 paesi, inclusi nel 2003 l’indagine TIMMS ha fatto lo stesso per matematica e scienze (su un campione leggermente inferiore di paesi). Gli studenti elementari italiani si collocano sopra la media per capacità di lettura; ma agli ultimi posti fra i paesi industrializzati, in capacità di applicare e di ragionare in matematica.

3) La spesa pubblica italiana sulla scuola elementare è già abbastanza efficiente, non è necessario toccarla.

Come abbiamo visto, la scuola elementare italiana ha una buona performance (certamente migliore di quella PISA) per quanto riguarda la lettura. Anche ignorando i risultati deludenti in matematica, possiamo quindi dire che la spesa pubblica italiana per la scuola elementare è abbastanza efficiente? Non necessariamente: sappiamo che l’Italia spende molto di più per studente elementare di molti altri paesi industrializzati. Quindi tenendo conto della spesa, è difficile arrivare ad una conclusione, anche perché non abbiamo indicatori univoci dell’efficienza della spesa pubblica.
In conclusione, le poche valutazioni rigorose internazionali non supportano l’idea che la scuola elementare italiana sia migliore di quella di molti altri paesi industrializzati. L’idea che essa sia migliorabile semplicemente con l’introduzione del maestro unico non è ovvia come il ministro vorrebbe far credere.
Il problema di fondo di queste posizioni è che esse sono il frutto di approcci estremamente ideologizzati, il cui apice fu toccato con la riforma Moratti, la quale attribuiva, almeno in teoria,  un ruolo di rilievo ad informatica e impresa nella didattica delle elementari. Inevitabilmente, l’approccio estremamente ideologico porta a sottovalutare l’unico strumento che può veramente cambiare la nostra scuola: una  valutazione seria. E qui non si può ignorare il fatto che sindacati e governi di tutti i colori hanno sempre ostacolato l’INVALSI, l’agenzia creata per raccogliere dati sui risultati delle varie scuole italiane da utilizzare per valutare il sistema scolastico. I discorsi sul premiare il merito – che tutti appoggiano a parole – rimarranno sempre chiacchiere fino a quando non si partirà da una seria valutazione delle scuole.

09/09/2008 Il maestro unico? Non torni per decreto (Gilberto Muraro, http://www.lavoce.info)

La controriforma proposta dal ministro Gelmini con il maestro unico, è meritevole di una discussione non preconcetta. Soprattutto, ricordando che del tutto inadeguata fu invece la riflessione sui costi e benefici della riforma introdotta con la legge 148/90, essenzialmente per motivi occupazionali. Nulla giustifica, tuttavia, il ricorso al decreto legge.

Torna il maestro unico? Annullando la riforma introdotta con la legge 5 giugno 1990, n.148, che prevede tre maestri per due classi, il ministro Gelmini vuole avviare il nuovo corso per le prime classi già da settembre 2009. E per non perdere tempo ha inserito il provvedimento in un decreto legge.

COSA ACCADDE NEL 1990

La netta e ovvia opposizione dei maestri e dei loro sindacati è stimolata dalla prospettiva di cadutaoccupazionale, indiscutibile dato che il ministro ne mena vanto. Ma si avvale anche di due argomentazioni: la controriforma ridurrebbe la qualità didattica e renderebbe impossibile il mantenimento del tempo pieno. Sono le due tesi avanzate in positivo a sostegno della riforma quasi vent’anni fa e non da tutti giudicate allora convincenti. Almeno non furono giudicate tali nel gennaio 1990 dalla Commissione tecnica per la spesa pubblica, operante presso il ministero del Tesoro, che espresse dubbi sull’efficacia formativa e ridicolizzò la pretesa del ministero della Pubblica istruzione di farla passare come riforma a costo zero in base al fatto che non implicava l’aumento, ma solo il mantenimento degli organici in essere, minacciati di disoccupazione per il previsto calo demografico. Erano gli anni del consociativismo, dell’egemonia sindacale, del dolce sonno di un’opinione pubblica convinta che, tutto sommato, il paese continuasse ad avanzare: “la nave va”, aveva detto qualche anno prima Bettino Craxi. Il brusco risveglio del 1992, con la svalutazione del 30 per cento della lira e la feroce stretta del governo Amato per salvare l’Italia dalla bancarotta, arrivò a decisione presa. Adesso nessuno più si sognerebbe di nascondere, adducendo l’invarianza contabile della spesa, il contenuto economico di una decisione che implicava la volontaria rinuncia al risparmio consentito dal calo demografico a parità di servizi offerti. Nella sostanza, quindi, si trattava di confrontare una maggiore spesa, sotto forma di risparmio mancato, con un maggior risultato dato dalla specializzazione degli insegnanti e dal prolungamento dell’orario scolastico. Un maggior risultato che andava tuttavia dimostrato e non considerato ovvio. Autorevoli scuole di pensiero, infatti, sottolineavano la preminente utilità psicologica di offrire ai bambini, almeno nei primi anni, un riferimento unico nonché il vantaggio della maggiore flessibilità didattica, in funzione delle esigenze di ciascuna classe, attuabile dall’insegnante unico. Da parte sua, la Commissione aggiungeva considerazioni collaterali ma non trascurabili sui pericoli dell’assioma che vede il risultato formativo crescere in funzione del tempo passato a scuola, senza interrogarsi sul cosa e sul come insegnare nell’orario aggiunto, e sul pericolo di nuovi insegnamenti, in particolare linguistici, affidati a insegnanti specializzati alla buona.

UN PROGETTO DA DISCUTERE

Si ricorda tutto ciò, un po’ per dovere di cronaca, dato che il parere della Commissione era stato stilato da Alessandro Petretto e dallo scrivente, ma soprattutto per suffragare la tesi che qui si avanza sui contenuti dell’attuale progetto Gelmini: un progetto da non rifiutare a priori, ma nemmeno da accettare a priori. Fossero anche vere le tesi contrarie alla riforma del 1990 che venivano allora menzionate dalla Commissione per esprimere dubbi e chiedere riflessioni, resta il fatto che molti insegnanti si sono formati nel nuovo contesto. Pertanto, anche ammesso che il ritorno al maestro unico sia giustificato, occorre rispettare gli insopprimibili tempi tecnici e studiare le modalità più opportune di ricalibratura degli insegnamenti e di riconversione degli insegnanti. (1)
E poi c’è il bisogno sociale ormai sedimentato, specialmente nelle aree più produttive e quindi con maggiori quote di lavoro femminile, di poter contare su un orario scolastico dilatato. Èprobabile che si possa garantire tale orario, come sostiene il ministro, anche con l’insegnante unico e con minore spesa, operando su classi riconfigurate, su nuove modalità di impiego e di remunerazione degli insegnanti, sull’introduzione di figure professionali meno costose. Ma è un’ipotesi da verificare e di cui vanno comunque individuati i termini più appropriati.
Queste osservazioni sul merito della proposta Gelmini - proposta probabilmente ben fondata ma tutta da approfondire nei contenuti, nei modi e nei tempi - rendono molto drastico il giudizio sulla procedura.
È incomprensibile che si voglia introdurre per decreto una controriforma di tale rilievo sociale e di tale complessità organizzativa, comprimendo e condizionando la discussione in parlamento e nel paese. Non c’è nessuna urgenza specifica che possa giustificare un iter accelerato. Non vale neanche la tesi che gli interessi corporativi si rompono solo per decreto, come ha insegnato Pier Luigi Bersani con i notai e i tassisti, perché qui non si tratta di togliere alcuni definiti e noti privilegi, eliminabili senza paura di effetti perversi. Si tratta, invece, di modificare il funzionamento di un organismo delicatissimo, in uno scenario che chiede di regolare con estrema attenzione forze antiche e recenti, dalle spinte della nuova società multietnica e multireligiosa all’eterna pressione delle scuole cattoliche. Né può valere, infine, l’urgenza di ridurre la spesa pubblica in generale, argomento vero e importante, ma non al punto da vanificare il ruolo del parlamento.
In conclusione, discussione non preconcetta su un eventuale disegno di legge, opposizione decisa a un decreto.

(1) La sfortunata vicenda dell’introduzione rapida del “tre + due” all’università dovrebbe essere illuminante

http://www.lavoce.info

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