Qui di seguito viene riproposto un articolo di Latouche, che esprime
quanto si può leggere anche in “Tracce
progettuali per un nuovo rinascimento urbano” (MDF). Le città dovranno
essere oggetto di riqualificazione e rigenerazione in senso decrescista,
attivando sin da oggi percorsi di transizione verso modelli urbani
più efficienti ed ecocompatibili, costruendo la resilienza locale.. Fabio
Cremascoli Da Carta.org un interessante articolo nel quale il
filosofo ed economista esamina la crisi della città e ne argomenta la
soluzione: «La crisi è politica e dunque il rimedio deve anche essere
politico»
di Serge Latouche
Riassunto.
Il disastro urbano che ciascuno può constatare, è il risultato di logiche che
sfuggono palesemente agli architetti e agli urbanisti. Tuttavia questi ne sono
stati i complici e al medesimo tempo hanno cercato di porrvi rimedio. Ma
l’architettura ecoresponsabile [o l’habitat bioclimatico] non è la soluzione,
al meglio costituisce un elemento ipotetico della soluzione. Questi tentativi
onorevoli degli architetti e degli urbanisti di porre rimedio alla crisi
urbana e sociale proponendo schemi ingegnosi sono condannati allo scacco per
mancanza di un’analisi globale del fallimento della società della crescita. La
crisi è politica e dunque il rimedio deve anche essere politico. È questa la
ragione per cui il progetto della decrescita passa necessariamente attraverso
una rifondazione del politico e quindi della polis, la città e del suo
rapporto con la natura.
Il progetto urbano è necessariamente secondo ripetto al progetto sociale, e
il progetto architettonico è secondo rispetto al progetto urbano. Il
«disastro» urbano non è il risultato di una mancanza degli architetti ne degli
urbanisti, è il résultato di una crisi di civilità. La città decrescente
dovrebbe essere una città con una impronta ecologica ridotta, trattenendo un
rapporto forte con l’ecosistema [una bio-regione]. In un primo tempo, la città
decrescente, potrebbe essere la cità attuale dalla quale sarebbe stati
eliminati la publicità, le auto e la grande distribuzione e dove sarebberò
stati introdotti i giardini condivisi, le piste ciclabili, una gestione
publica dei beni comuni [acqua, servizi di base] e anche la coabitazione e le
«botteghe di quartiere». Una riconversione sarà necessaria ma anche una certa
diindustrializzazione. In sintesi, la città decrescente, primo passo verso una
società di abbondanza frugale, preserverà l’ambiente che è in ultima analisi
la base di tutta la vita, aprirà a ciascuno un accesso più democratico
all’economia, ridurrà la disoccupazione, rafforzerà la partecipazione [e
dunque l’integrazione] e anche la solidarietà, fortificherà la salute dei
cittadini grazie alla crescita della sobrietà e alla diminuzione dello stress.
Il disastro urbano della società della crescita
Il disastro urbano che ciascuno può constatare, è il risultato di logiche
che sfuggono palesemente agli architetti ed agli urbanisti. Abbiamo una
quantità di architetti e urbanisti di ottima qualità [compresi quelli del
campo dell’abitare ecologico] ma questo non impedisce il caos urbano e
paesaggistico attuale nel quale il mondo è rinchiuso. Il problema è che questa
architettura è spesso molto seducente quando si tratta di ville individuali o
di palazzi prestigiosi, ma è molto deludente nel’insieme. Fallisce «a fare
città» e sopratutto ha fallito nell’impedire la decomposizione del tessuto
urbano, le mitage du paysage [tarmatizzazione del paessaggio], la
cementificazione del territorrio, la crescita dello squallore del quadro della
vita e la distruzione del’ambiente, per non parlare dello scacco nel ridurre
il consumo di energia e l’impronta ecologica. Tuttavia questi architetti e
urbanisti ne sono stati i complici e al medesimo tempo hanno cercato di porvi
rimedio. Siamo di fronte a una forma di schizofrenia. Questo disastro urbano è
stato constatato anche dal grande architetto portoghese, Alvaro Siza. «La cosa
più grave è la devastazione del territorio, lo scacco di questa disciplina è
l’uso della terra… Noi assistiamo alla fine di un ordine delle cose che
prefigura forse un’altra cosa, che noi non connosciamo ancora. E, senza dubbio
questa era inevitabile. Ma nell’immediato, la qualità è emarginata e siamo di
fronte a un disastro». Noi viviamo ancora nella città produttivista, pensata e
strutturata in funzione del’automobile sotto forme che pretendono di essere
razionali [basta pensare alla città radiosa di Le Corbusier] con le sue
segregazionì degli spazi, sue zone industriali, i suoi quartieri residenziali
senza vita.
Si è potuto parlare giustamente della distruzione delle città in tempo di
pace con l’esplodere dei vecchi centri storici, la speculazione immobiliare
sfrenata che caccia i ceti inferiori e medi verso le periferie, il proliferare
dei centri commerciali, l’estensione delle zone residenziali, l’emergere dei
gratttacieli, la lacerazione dello spazio dalle autostrade e la proliferazione
dei non-luoghi [stazioni, aeroporti, ipermercati, ecc.]. L’asfissia del
traffico automobilistico è uno dei sintomi di una crisi più ampia generata
dalla «super» o «iper» modernità [parola che trovo più giusta di
«post»-modernità]. Questo è il trionfo della brutezza.
Per poter abozzare ciò che potrebbe essere l’urbanismo e l’architettura in
una sociétà della decrescita, bisogna capire prima, che cos’è la società della
decrescita e le suoi implicazioni architetetoniche e urbanistiche, poi si
potrà precisare a che cosa somiglierebbere la città decrescente.
Il progetto della decrescita e le sue implicazioni urbane
Che cosa è la decrescita? La parola d’ordine della decrescita ha
soprattutto lo scopo di sottolineare con forza la necessità di abbandonare il
progetto insensato dello sviluppo per lo sviluppo, della crescita per la
crescita. Si può definire la società di crescita come una società dominata da
una economia di crescita e che tende a lasciarsene assorbire. La crescita per
la crescita diventa così l’obiettivo principale, se non l’unico, della vita.
Il cancro della Crescita [con la «C» maiuscola] non distrugge soltanto la
città, ma distrugge anche il senso dei luoghi lacerando il territorio. Questo
è l’esplosione del’urbano, secondo la sociologa Tiziana Villani. Si tratta di
un processo di artificializzazione della vita. L’uomo pretende di ricreare il
mondo meglio di Dio e della Natura. Gli Ogm, le nanetecnologie, la clonazione,
l’allevamento industriale dei pesci, ecc. Ne sono una illustrazione. L’esito
finale sarebbe il cyberman, l’uomo artificiale. Ora, il resultato più visibile
è la transformazione del mondo reale, del mondo nel quale siamo condannati a
vivere, in discarica o pattumeria.
Il fallimento di Dubaï e della sua torre di ottocento metri inabitata,
constituisce un simbolo del fallimento del sogno americano e del suo
urbanismo. Il progetto della torre di un chilometro di altezza non sarà
probabilmente mai costruito. La citta produttivista appartiene al passato, ma
la distruzione del mondo si prosegue.
Ovviamenteil fine della società della decrescita non è un capovolgimento
caricaturale consistente nel predicare la decrescita per la decrescita.
Soprattutto la decrescita non è la crescita negativa. Si sa che il semplice
rallentamento della crescita fa cadere le nostre società nello sconforto a
causa della disoccupazione e dell’abbandono dei programmi sociali, culturali e
ambientali che assicurano un minimo di qualità della vita. Si può ben
immaginare quale catastrofe costituirebbe un tasso di crescita negativo! Così
come non c’è niente di peggio che una società fondata sul lavoro senza lavoro,
niente è peggio di una società di sviluppo senza sviluppo. Rigorosamente
parlando, più una a-crescita [come si parla di a-teismo] che una de-crescita.
Si tratta precisamente dell’abbandono di una fede e di una religione: quella
dell’economia.
Il cambiamento reale di prospettiva necessario per costruire una società
autonoma di decrescita può essere realizzato attraverso il programma radicale,
sistematico, ambizioso delle otto «R»: rivalutare, ridifinire, ristrutturare,
ridistribuire, rilocalizzare, ridurre, riutilizzare, riciclare. Questi otto
obiettivi interdipendenti scatenano un circolo virtuoso di decrescita serena,
conviviale e sostenibile. Non si tratta di un programma, siamo al livello di
concezione. Il progetto della società della decrescita si articola dunque
intorno al circolo virtuoso delle otto «R». Si può dire delle otto «R» che
sono tutte altrettanto importanti. Mi sembra comunque che tre abbiano un ruolo
più «strategico» delle altre: la rivalutazione, perché dà origine a tutti
cambiamenti, la riduzione perché tiene in sé tutti gli comandamenti pratici
della decrescita e la rilocalizzazione perché ha a che fare con la vita
quotidiana e il lavoro di milioni di persone. Il problema della città e del
territorio ormai distrutti e tutto da ripensare si inscrive nel contesto più
ampio del mondo lacerato, della perdita dei punti di riferimento e della crisi
del locale. Il disastro urbano è al medesimo tempo un disastro rurale e
paesagistico. Ma, nell’ottica della costruzione di una serena società di
decrescita, la rilocalizzazione non può essere solo economica. Sono la
politica, la cultura, il senso della vita che debbono ritrovare il loro
ancorarsi territoriale. La parola chiave è l’autonomia.
La rilocalizzazione svolge quindi un ruolo centrale nell’utopia concreta e
feconda della decrescita, e si articola quasi subito in un programma politico.
La decrescita sembra rinnovare la vecchia formula degli ecologisti: pensare
globalmente, agire localmente. Rilocalizzare l’economia e la vita è una
condizione non trascurabile della sostenibilità. Se l’utopia della decrescita
implica un pensiero globale, oggi la si realizza solo partendo dai territori.
Si tratta di Riterritorializzare [Alberto Magnaghi], ritrovare un sito e
ri-abitarlo.
Tuttavia, l’architettura ecoresponsabile o l’habitat bioclimatico non è la
soluzione, al meglio costituisce un elemento ipotetico della soluzione. La
«città sostenibile» promossa dalla Carta d’Aalborg [1994] è più una forma di
modernizzazione ecologica del capitalismo [greenwashing] che un vero rimedio
al disastro del produttivismo. Gli ecoquartieri – quartiere Vauban a Friburgo
[Germania], Houten [periferia di Utrecht, 40.000, in Olanda] e di Bedzed [Beddington
zero energy development] nella città di Sutton a sud di Londra – sono alla
fine delle isole di sostenibilità dentro un’mare di inquinamento urbano, e non
riusciranno a trasformarlo. Il fallimento e lo scacco clamroso delle «ecocittà
» cinesi sono sintomatiche. I rari progetti, lanciati con trombe e fanfare
come Chongming, sono nel’impasse. L’ecocittà di Dongtan à Chongming di fronte
a Shanghai è stata promossa con forza dal 2006-2008 per fare vetrina ecologica
all’Esposizione Universale. Il padrino del progetto è stato eliminato nel 2008
per corruzione dopo di che il progetto, mal conçepito, è stato abandonnato.
Gli altri progetti [Huangbaiyu e Tianjin] non vanno bene. L’economia ha vinto
sull’ecologia. In questi progetti si tratta sempre di abitare meglio ma non di
cambiare il rapporto con la natura, il paesaggio e con il consumismo. I
tentativi onorevoli degli architetti e degli urbanisti di porre rimedio alla
crisi urbana e sociale proponendo schemi ingegnosi – regioni urbane, città
giardino, città totale, reti urbane, conurbazioni [Geddes], Broadacre city
[Wright], città compatta, città distesa, ecc., che cercano una nuova
articolazione tra città e campagna, sono condannati allo scacco per mancanza
di un’analisi globale del fallimento della società della crescita.
Il funzionalismo formalizato nella Carta di Athene da Le Corbusier [1943]
che pretendeva di lottare contro il «disordine urbano» ha generato finalamente
un disordine più grande al prezzo di una esplosione dell’impronta ecologica
delle città. Secondo la profezia di Lewis Mumford, la megapolis si trasforma
in tyrannopolis, poi finisce come nekropolis. Questo sembra essere il destino
de l’iperpolis virtuale, constituita dalla finanza e dai media globalizzati.
La crisi è politica e dunque il rimedio deve anche essere politico. È
questa la ragione per cui il progetto della decrescita passa necessariamente
attraverso una rifondazione del politico e quindi della polis, la città e del
suo rapporto con la natura. Il progetto urbano è necessariamente secondo
ripetto al progetto sociale, e il progetto architettonico è secondo rispetto
al progetto urbano. Il «disastro» urbano non è il risultato di una mancanza
degli architetti ne degli urbanisti, è il résultato di una crisi di civilità.
Solo con l’inserimento dentro il progetto di costruzione di una società di
decrescita il tessuto locale e urbano può essere ricomposto.
A che cosa somiglierà la città decrescente?
La città decrescente dovrebbeessere una città con una impronta ecologica
ridotta, trattenendo un rapporto forte con l’ecosistema [una bio-regione].
Piutosto di sognare la construzione di città nuove, bisognerà imparare ad
abitare le città in modo diverso, questo al Nord come al Sud. La città consuma
bassa entropia [energia, risorse, cibo, ecc.] e esporta massiciamente alta
entropia [rifiuti, inquinamento]. Si tratta di un predatore ecologico che
consuma una superficie «fantasma» molto superiore alla sua superficie reale.
«Pourqu’un mètre carré de surface urbaine fonctionne dans les villes
espagnoles, il faut 60 mètre carrés d’espace rural, de sol agricole, forêt ou
prairie, pour permettre aux troupeaux de produire les biens et services
réclamés par les grandes villes. L’empreinte écologique urbaine n’arrète pas
de croître. Il y a 50 ans, les villes n’avaient besoin pour chaque mêtre carré
que de 25 m2 de campagne. Si on fait une projection, à ce train là, en 2050,
il faudra 500 m2 de sol rural par m2 urbanisé. L’empreinte écologique du
citadin espagnol représente 4 fois l’empreinte soutenable [6ha 395/1,8]».
Più la citta è estesa, «funzionale» [Le Corbusier], più questa impronta è
forte. Quello che non si vuole dire che bisogna verticalizzare le città. Le
torri sono dei divoratori di energia e non accrescono veramente la densità.
Bisogna sicuramente reinventare una città più «compatta». L’habitat
individuale, isolato, anche pensato ecologicamente bene, è una eresia
urbanistica, dal punto di vista della decrescita, perchè ogni anno spariscono
ettari di terre agricole sotto l’asfalto e il cemento. La costruzione
ragruppata e l’alloggiamento collettivo dimostrano una efficacia energetica
più alta.
Invece delle megalopoli attuali, bisogna imaginare una città ecologica,
fatta di villagi urbani dove ciclisti e pedoni utilizzano una energia
rinovabile. Nella città decrescente, gli abitanti ritroverano cosi il piacere
di gironzolare, come sognavano Baudelaire o Walter Benjamin. Riapprendere di
abitare il mondo è quindi un imperativo.
Si può pensare a organizzare delle bioregioni urbani. La bioregione urbana,
costituita da un insieme complesso di sistemi territoriali e locali dotati di
una forta capacità di autosostenibilità, mira a ridurre il consumo di energia
e le diseconomie esterne [o esternalità negative, cioè i danni provocati
dall’attività di un soggetto che ne fa pagare i costi alla collettività].
Politicamente, una bioregione potrebbe essere concepita come una città di
città, città di municipi, municipio di municipi o forse una città di villaggi,
in breve una rete policentrica o moltipolare. Si potrebbe considerare un’area
metropolitana come una articolazione di quartieri autonomi che funzionano come
dei comuni giustapposti, secondo la proposta di Murray Bookchin. «La città,
che da secoli ha funzionato secondo la formula del ‘luogo dove tutto si
scambia’ – scrive Yona Friedman – diventerà un’arca di Noè destinata ad
assicurare la sopravivvenza della specie nonostante il diluvio. Una grande
autonomia, una grande autarchia saranno dunque necessarie». Questa autonomia
comunque non significa ancora un’autarchia completa. Si potrà stimolare il
commercio con le regioni che avranno fatto la stessa scelta e avranno
abbandonato il produttivismo. Si ricercherà anche l’autonomia energetica
locale: le energie rinnovabili sono adatte alle società decentralizzate, senza
grandi concentrazioni umane. Questa dispersione ha il vantaggio che ogni
regione del mondo possiede un potenziale naturale per sviluppare una o più
filiera di energia rinnovabile.
«Saremo noi un giorno capaci – si chiede Christophe Laurens, architetto e
paesaggista – abitare poeticamente le torri degli uffici, gli stadi, gli
incroci, i centri commerciali, le discariche e tutti i parchi d’attrazione,
tutto ciò quello che l’architetto olandese Rem Koolhaas chiama i junkspace?».
La risposta viene forse da Yona Friedman: «Per trasformare il male in bene –
dice – dovremo disfarci del condizionamento che abbiamo subito». Si tratta di
abitare diversamente la stessa città. Pensare al Paris [Parigi/scommessa]
della decrescita.
In un primo tempo, la città decrescente, potrebbe essere la cità attuale
dalla quale sarebbe stati eliminati la publicità, le auto e la grande
distribuzione e dove sarebberò stati introdotti i giardini condivisi, le piste
ciclabili, una gestione publica dei beni comuni [acqua, servizi di base] e
anche la coabitazione e le «botteghe di quartiere». Una riconversione sarà
necessaria ma anche una certa disindustrialisazione. Il risultato di questa
disindustrializzazione realizzata, grazie a degli attrezzi soffisticati ma
conviviali, sarebbe la prova che si può produrre altrimenti. Anche se la parte
autoprodotta non è totale, essa è comunque importante.
Nel suo bel libro «Manifesto per la félicita. Come passare dalla società
del ben-avere a quella del ben-essere» [Donzelli, 2010], Stefano Bartolini
presenta così la città «relazionale» che corrisponde quasi-esattamente al
progetto della decrescita: «La città relazionale è uno degli aspetti cruciali
della mia proposta di assegnare ai bambini una priorità ben maggiore di quella
attuale perché essi sono il paradigma dello stretto legame tra spazio e
mobilità nel determinare l’esperienza relazionale. I bambini devono disporre
di spazi pedonali di qualità vicino a casa e della possibilità di arrivarci da
soli. Gli elementi chiave di una città relazionale sono: l’auto privato deve
essere drasticamente limitata come misura strutturale, per fare in modo che
tutti i cittadini usino i trasporti publici; la densità di popolazione deve
essere alta; ci devono essere molte piazze, parchi, isole pedonali di qualità,
centri sportivi ecc.; le aree pedonali ideali sono nei dintorni del mare, di
un lago, un fiume, un ruscello, un canale; devono attraversare la città in
modo da formare una rete pedonale e ciclabile; ci devono essere il più
possibile marciapiedi spaziosi e piste ciclabili; ampi terreni di proprietà
publica deveno circondare la città, per costruirvi parchi e case16».
E per il Sud? Bisogna partire dalla realtà. Due miliardi di persone vivono
nei baraccopoli [bidonvilles] o delle favelas autoconstruite e non accederanno
mai alla città produttivista. La visione di Yona Friedman dell’architettura e
dell’urbanismo di sopravivvanza è certamente più realista per il Sud, e
inoltre in coerenza con la città decrescente al Nord. La città povera è fatta
di un insieme di bidonvillages. «Il bidonvillage – dice Friedman – è la
società anarchica dei poveri e non ha che fare con una scelta ideologica o
politica; questo tipo di società si è costituito semplicemente perché
l’esperienza ha provato che questo assicura al bidonvillage le migliori
probabilità di sopravvivenza».
Finalmente, «La risposta dell’architettura di sopravivvenza ai problemi
correnti sarebbe dunque: costuire meno, ma imparare ad abitare in altro modo;
sfruttare meno i nostri campi, e in compenso imparare a rivedere i nostri
criteri di ‘commestibilità»; vivere nelle città in cui abitiamo, ma
organizzarci con minori spostamenti e vivere all’interno del nostro villaggio
urbano, isolato dagli altri villaggi urbani, non più frequentati da noi perché
lontani».
In attesa dei cambiamenti necessari della governance mondiale e della
salita al potere di governi nazionali intonati all’obiezione di crescita,
numerosi sono gli attori locali che hanno implicitamente o esplicitamente
imboccato la strada dell’utopia feconda della decrescita. Se il progetto
locale comporta evidenti limiti, non si deve sottovalutare le possibilità di
fare dei passi avanti nella politica a questo livello. Si può menzionare: la
Rete del nuovo municipio, la rete delle città lenti [Slow cities], le città in
transizione [Transition towns], le Città post carbone, le numerose esperienze
di città virtuose come l’esperienza del comune di Mouans Sartoux sotto
l’impulso del suo sindaco André Aschieri19, le esperienze di Barjac20 e di
Correns, tutte collegate con iniziative più piccole [i Gruppi di acquisto
solidale, Amap ecc]. `
Il movimento delle città in transizione [Transition towns] è forse la forma
di costruzione dal basso che si avvicina di più a una società della
decrescita. Queste città secondo la carta della rete ricercano
l’autosufficienza energetica nella prospettiva della fine delle energie
fossili; più generalmente ricercano la resilienza. Questo concetto, preso in
prestito dalla fisica, passendo attraverso l’ecologia scientifica, può essere
definito come la capacità di un’ecosistema di resistere ai cambiamenti della
sua ambiente21. Per esempio, come i grandi agglomerati urbani potranno
affrontare la fine del petrolio, l‘aumento della temperatura, e tutte le
catastrofe prevedibili? La risposta dell’esperienza ecologica è che se la
specializzazione consente di migliorare le performanze in un’campo, rende più
fragile la resilienza dell’insieme. La diversità, al contrario, rinforza la
resistanza e le capacità di adattarsi. Reintrodurre gli ortaggi, la
policultura, l’agricultura di prossimità, piccole unità artigianali,
moltiplicare le sorgenti di energia rinovabile, tutto questo rinforza di
consequenza la resilienza.
Per concludere, si possono riprendere due citazioni di architetti
Enrico Frigerio [in Slow Architecture]: «L’architetto esteta, creatore di
forme, credo sia oggi quasi anacronistico».
Yona Friedman: «Dopo tutto,
stiamo forse riscoprendo che assicurarsi la sopravvivenza può anche essere la
Festa».
In sintesi. La città decrescente, primo passo verso una società di
abbondanza frugale, preserverà l’ambiente che è in ultima analisi la base di
tutta la vita, aprirà a ciascuno un accesso più democratico all’economia,
ridurrà la disoccupazione, rafforzerà la partecipazione [e dunque
l’integrazione] e anche la solidarietà, fortificherà la salute dei cittadini
grazie alla crescita della sobrietà e alla diminuzione dello stress. L’impatto
sul paesaggio, anche se non fosse l’oggetto di una politica specifica, sarà
necessariamente positivo.
[Questo saggio è il testo della relazione di Serge Latouche al meeting
internazionale, il 19 e 20 maggio a Roma, dal titolo «The architecture of well
tempered environment - Un'armonia di strumenti integrati», promosso
dall'Unione internazionale degli architetti e dall'Union internationale des
architectes, architecture and renewable energy sources].
Fonte: ripreso da Ecodallecittà del 23.6.2011
Archivio Decrescita
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