La lunga estate calda del calcio italiano sottopone tifosi e appassionati a
una continua doccia scozzese. A pochi giorni dalla conquista di una storica e
insperata Coppa del mondo, l’attesa sentenza della Caf sarà, con ogni
probabilità, anch’essa storica, anche se purtroppo per opposti motivi. Con la
più che probabile retrocessione della Juventus (in B o C poco importa), con le
sanzioni inflitte ai correi, si chiude un’epoca del nostro calcio, che sinora
appunto aveva avuto nella squadra torinese il proprio baricentro. Salvo infatti
poche parentesi, la storia secolare del nostro sport più popolare è storia di
duelli a due, bianconeri da una parte, contendente del momento dall’altra.
Critiche ingiuste
Non sorprende allora la vivacità del dibattito alimentato nelle settimane
scorse dalla prospettiva che il prossimo campionato di serie A perda una delle
sue storiche protagoniste. Via via che il processo dello stadio Olimpico compiva
il suo iter, personalità di vertice della politica e del diritto (tra gli altri
il ministro della Giustizia, Clemente Mastella, il presidente emerito della
Repubblica Francesco Cossiga, il giurista Giuliano Pisapia) hanno criticato,
anche aspramente, la corte presieduta da Cesare Ruperto, e prima ancora il
contesto normativo in cui questa si è trovata a giudicare.
Due i principali filoni di critica. Il primo, con tono neppure troppo
celatamente demagogico, si chiedeva se fosse giusto che assi amati dal pubblico
come i neo-campioni del mondo Cannavaro e Buffon giocassero il prossimo anno in
una delle serie cadette. E più in generale se fosse accettabile che le colpe di
pochi dirigenti fossero pagate da milioni di incolpevoli tifosi, colpiti nel
loro passatempo domenicale preferito. Il secondo, più tecnico, seppure
illustrato con immaginifici paragoni (l’aula del processo sportivo come il
Colosseo in cui poveri innocenti venivano dati in pasto ai leoni) criticava la
sommarietà procedurale della giustizia sportiva, che in pochi giorni perviene a
sentenze che interessano realtà che sono ormai a tutti gli effetti colossi
economici privati, ai quali dunque sarebbe necessario assicurare ben altre
garanzie di difesa.
Entrambe le questioni, alle quali ha peraltro già risposto il commissario
straordinario della Figc Guido Rossi nell’audizione del 12 luglio alla Camera,
sono a ben vedere mal poste. Pur senza entrare nel merito del giudizio (ancora
in corso) è comunque possibile svolgere alcune considerazioni di carattere
generale.
Il decreto 231
Il fatto che società e altri enti possano essere chiamate a rispondere per
gli illeciti commessi da propri esponenti è, ormai dal 2001, norma generale del
nostro ordinamento.
Il decreto legislativo 231, approvato in esecuzione di una convenzione Ocse
contro la corruzione, è volto a evitare che taluni soggetti economici collettivi
(società di capitali, ma non solo) possano trarre vantaggio – a danno dei propri
concorrenti diretti – da alcuni specifici reati previsti dallo stesso decreto,
compiuti dai loro dirigenti. Prevede sanzioni pecuniarie e interdittive (come il
divieto a contrattare con la pubblica amministrazione) a carico dell’ente,
irrogate dallo stesso giudice che giudica sulla responsabilità penale delle
persone fisiche. Sanzioni che possono essere preventivamente evitate, ove l’ente
si sia dotato di modelli organizzativi volti a minimizzare il rischio della
commissione di quei medesimi reati. È evidente l’incentivo alla prevenzione, che
è il vero obiettivo della legge. Oltre a infrangere il millenario principio del
nostro ordinamento societas delinquere non potest (derivante direttamente dal
diritto romano), il decreto legislativo 231, come la giustizia sportiva, pone
ovviamente il problema di bilanciare tutela della competizione economica e
difesa dei diritti dell’ampia platea di incolpevoli stakeholder dell’ente
sanzionato (pensiamo ai lavoratori, ma anche agli azionisti, ai clienti o ai
fornitori), che sono certamente danneggiati, sia pure in modo prevalentemente
indiretto, dalla sanzione alla società. Ma il problema di individuare questo
difficile equilibrio non si risolve certo consentendo che questi stessi
stakeholder beneficino, come accadeva in passato, delle malefatte dei dirigenti.
Ciò infatti implicherebbe un vulnus al funzionamento del mercato, che ove invece
sia tutelato, come appunto cerca di fare il decreto, costituisce il miglior
meccanismo di tutela di quegli stessi stakeholder. Clienti e fornitori possono
rivolgersi a soggetti più corretti, gli stessi lavoratori possono cambiare posto
di lavoro. Così, tornando al mondo del pallone, e per quanto ciò possa sembrare
oggi doloroso al tifoso bianconero, i neo-campioni del mondo Buffon e Cannavaro
possono andare a giocare altrove.
Non è giustizia sommaria
Quanto alla sommarietà della giustizia sportiva, il solo porre la questione
come l’abbiamo letta sui giornali è indice di scarsa dimestichezza con l’intero
movimento. Provate a immaginare un ordinamento che preveda tre gradi di giudizio
contro il fischio dell’arbitro, che pure con l’assegnazione di un rigore, con la
convalida o l’annullamento di un gol (decisioni assunte in una frazione di
secondo, magari dopo l’affannosa rincorsa a un contropiedista di venti anni più
giovane) può determinare redistribuzioni di reddito dell’ordine di centinaia di
milioni di euro (anzi decine di miliardi, se stiamo all’ormai famoso studio di
Abn Ambro sugli effetti della vittoria mondiale). Scherzi a parte, introdurre le
corpose garanzie giustamente previste nei tribunali ordinari vorrebbe dire
risolvere, forse, i problemi procedurali, con grande soddisfazione dei giuristi,
ma uccidere il campionato, con grande scoramento dei milioni di tifosi (quegli
stessi che oggi sono abbattuti dalla sentenza Caf). Che senso avrebbe una
competizione in cui uno dei contendenti gioca sub iudice, o l’arbitro è sotto
processo per collusione con uno di loro? Provocatoriamente, ma non tanto, visto
l’infelice stato della nostra giustizia ordinaria, civile e penale, potremmo
ribaltare le critiche giunte alla Caf nelle ultime settimane. Invece di invocare
per la giustizia sportiva le garanzie di quella ordinaria, sarebbe più opportuno
invocare per questa almeno un po’ della celerità e speditezza della prima
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