Perché vi scandalizzate adesso per
gli affari sporchi di Telecom?
La frode e il saccheggio sono stati compiuti già all’inizio, nella sua
«privatizzazione».
Fu nel 1997, quando il governo Prodi mise sul mercato le azioni telefoniche
in possesso del Tesoro. E vendette quelle azioni - cosa nostra, pagate da
noi contribuenti in mezzo secolo - per una cifra minima: tant’è vero che si
vide, in un anno, che Telecom valeva sul mercato cinque volte di più (più
514 %).
Insomma Prodi svendette un patrimonio nostro e dello Stato.
Un regalo per amici e privilegiati.
Vero è che l’enorme rialzo fu in parte dovuto ad altre frodi del governo.
Si proclamò che di Telecom si voleva fare una public company; i piccoli
risparmiatori furono invitati a comprare da una campagna martellante (e
infatti comprarono l’85%).
La fiducia dei risparmiatori fu artificialmente accresciuta
dall’affermazione, emanata dal Tesoro, che la AT&T, il colosso USA delle
telecomunicazioni, s’era precipitata a comprare ben il 2,4% della nostra
Telecom: una presenza che aumentava il prestigio e dunque il valore di
Telecom. Ebbene, era una menzogna.
Quel 2,4 % restò parcheggiato al Tesoro, fino a quando AT&T rese pubblico
che non aveva mai pensato di comprare alcunchè.
Ministro del Tesoro era allora Ciampi, il padre della patria.
Direttore generale, Mario Draghi.
Al vertice di Telecom fu nominato l’immarcescibile, il sempre intoccabile
Guido Rossi.
In realtà, il potere fu assegnato a un «nocciolo duro» di vari proprietari,
ciascuno dei quali possedeva lo 0,5 %, lo 0,6 %: fra cui Ifil (Agnelli), i
soliti capitalisti senza capitale.
Prima ancora della privatizzazione, il più bell’affare sporco di Telecom:
nel ‘97 compra il 29 % di Telekom Serbia, pagando a Milosevic 878 miliardi
di lire.
Rivenderà questa quota a Telekom Serbia, cinque anni dopo (caduto Milosevic),
per 378 miliardi: con una perdita del 57%.
Su questo delitto il Polo, Paolo Guzzanti in testa, faranno una così
rumorosa «indagine», da pasticciare le cose in modo tale, che nulla si
scoprirà e nessuno sarà condannato.
E' stata tutta una serie di affari schifosi, in pura perdita, a portare il
debito Telecom a 40 miliardi di euro, il costo di tre finanziarie
lacrime-e-sangue.
Nel 1997, quando il governo (Prodi) privatizza Telecom, ne ricava 11,8
miliardi di euro.
Lo Stato esce dalle telecomunicazioni, si proclama.
Ma nel 2001 ENEL - società pubblica - rientra nelle telecomunicazioni
comprando Infostrada, una concorrente di Telecom, ma più piccola.
E per quale cifra? 11 miliardi di euro.
Ma che c’entra Infostrada, direte voi.
C’entra e spiega come avvenne il saccheggio.
Infostrada è, sostanzialmente, la vecchia rete telefonica interna delle
Ferrovie dello Stato.
Il governo (Prodi) vendette questa preziosa infrastruttura, nostra e pagata
da noi, ad Olivetti (De Benedetti) per 700 miliardi di lire, pagabili con
comode rate in 14 anni.
E Olivetti la vendette subito alla tedesca Mannesman per 14 mila miliardi di
lire, mica a rate, ma in unica soluzione.
Non è un bel regalo, un patrimonio nostro ceduto a un amico loro a un
ventesimo del suo valore?
Nessuno fu incarcerato per questo.
Anzi, uno sì: Lorenzo Necci, onesto manager delle Ferrovie, cercò di
opporsi.
Giuliano Amato e Massimo D’Alema gli consigliarono di non fare il difficile,
di dare la rete a Olivetti senza tirare sul prezzo.
Necci non capì l’amichevole consiglio.
La magistratura lo incriminò subito dopo, le sue telefonate intercettate
divennero di pubblico dominio, lo attendevano mesi di carcerazione
preventiva.
Poi assolto.
D’Alema va al governo, e comincia il saccheggio firmato Colaninno.
Questo «capitano coraggioso» dalemiano s’è accaparrato Olivetti, e con
questa dà la scalata a Telecom.
Con irregolarità mostruose: ma quando la Consob, con Spaventa a capo, vuol
vederci chiaro, un colloquio a quattrocchi di D’Alema con Spaventa spaventa
Spaventa (che non è un ardito, ed ha di fronte l’esempio di Necci).
Un caso soltanto: nell’offerta pubblica d’acquisto, Colaninno è costretto ad
aumentare l’offerta, da 10 a 11,5 euro ad azione, perché il titolo in Borsa
è salito.
Da quel momento ovviamente Colaninno ha estremo interesse che il titolo non
salga più sul «libero mercato».
Che fa?
Si scopre che in quei giorni lui e soci vendono di soppiatto le azioni in
loro possesso e di cui dichiarano al mercato di essere pronti a comprarne di
più: per farne calare il corso.
I capitani coraggiosi realizzano tra l’altro una plusvalenza di 50 miliardi
con questa vendita occulta, perché hanno approfittato del rialzo da loro
stesso determinato con l’annuncio di voler acquistare a 11,5 anziché a 10.
In altri Paesi, ciò si chiama aggiotaggio e insider trading, e porta in
galera.
In Italia no, quando governa D’Alema.
Colaninno si scusa, e finisce lì.
La scalata venne definita dal Financial Times «una rapina in pieno giorno».
Colaninno non ha soldi, ma amici e ingegno.
Controlla al 51 % una società fantasma, la Hopa, che controlla il 56 % di
un’altra entità chiamata Bell, la quale controlla il 13,9 % di Olivetti, la
quale a sua volta controlla il 70% di Tecnost, che controlla il 52 % di
Telecom.
Fatti i conti, Colaninno e i suoi complici controllano Telecom detenendone
l’1,5 %.
Saggia minuscola partecipazione: Telecom ha già 30 mila e passa miliardi di
debiti, e deve pagare il debito con rate di 6,600 miliardi l’anno, un rateo
mangia-profitti.
Qualche curiosità si appunta, in queste scatole cinesi, sulla Bell: non si
sa chi ne siano i soci.
A garantire la trasparenza della Bell interviene direttamente il capo del
governo, D’Alema.
Chissà perché.
Due giornalisti di Repubblica scoprono un perché possibile: tra i soci
fondatori di Bell compare un capitalista collettivo chiamato Oak Fund, con
sede alle Cayman.
Oak Fund significa, tradotto, Fond o Quercia, e risulta un fondo gestito in
esenzione fiscale, in un paradiso vietato dalla legge italiana, da soci
anonimi con quote al portatore.
Sarà a causa di questo Fondo Quercia che Marco Travaglio parlerà, a
proposito dei nuovi comunisti, come di gente «entrata al governo con le
pezze al culo e uscitane coi miliardi»?
Sarà per questo che, come testimoniò Colaninno, dopo la sua OPA il ministro
Bersani gli telefonò gridandogli: «E vai!», esultante alla romagnola?
O che Prodi esalò un giorno: «Se avessi fatto io il 2 % di quel che sta
facendo D’Alema per influenzare le decisioni di aziende quotate sui mercati
sarei già crocifisso»?
Certo è che ci furono dei bei guadagni dai saccheggi di Colaninno.
Colaninno stesso ne è uscito, dopo il disastro da lui provocato,
supermiliardario.
Ma non è il solo.
Prendiamo per esempio la SEAT, che gestisce la pubblicità.
Apparteneva a Telecom, e fu dismessa.
Anzi no: ne fu poi ricomprato da Tele com il 20 % (perché se la società
committente possiede almen! o il 20 % della società cui affida la
pubblicità, può farlo a trattativa privata evitando la gara d’appalto: in
gara c’era il gruppo Fininvest, che di pubblcità s’intende un po’).
Chi acquistò SEAT (Comit - De Agostini ed altri, ammucchiati in una società
chiamata «Otto») a 1.955 miliardi per il 61%, la rivende trenta mesi dopo a
Colaninno, che ne acquista il 20 % a 7200 miliardi; poi un altro 17 % a 5
mila miliardi, e un altro 8 % per 5750 miliardi.
Insomma, una cosa acquistata a 1.955, viene venduta subito dopo a 16 mila e
passa.
A fornire i soldi alla «Otto» per il fortunato acquisto è Dario Cossutta,
figlio dell’Armando, alto dirigente della Banca Commerciale - che è anche
socia della «Otto».
Ma gli altri soci, che dovrebbero pagare le imposte sulle plusvalenze dopo
la splendida vendita al mille %, si trasformano prontamente in società
lussemburghesi.
Chi sono i padroni?
Non si sa; tutta una catena di società anonime che finiscono in paradisi
fiscali: si ignora chi abbia incassato la plusvalenza miracolosa senza
pagare le tasse, in un’operazione voluta dal governo (Prodi) di allora.
Magari qualche partito?
Magari qualche gemello di un qualunque Oak Fund alle Cayman?
Non chiedete a me.
Vi ho raccontato solo quattro cose, delle molte che basterebbero per
sbattere in galera l’intera sinistra di governo italiana, la grande
saccheggiatrice del patrimonio pubblico con le «privatizzazioni».
Io, poi, non so nulla.
Mi sono limitato a copiare: da «Il grande intrigo», un libro del giornalista
economico Davide Giacalone, distribuito da Libero.
Non chiedano a me, i magistrati.
Non so niente di Tronchetti, né di Tavaroli lo spione che intercettava, e
che aveva da parte 14 milioni di euro (provenienti dalla società più
indebitata dell’universo).
Se vogliono indagare, li rimando al libro di Giacalone, è tutto scritto lì.
Arrestino lui, semmai, se vogliono indagare.
Io non c’entro.
Maurizio Blondet
Fonte:
www.effedieffe.com
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