Sembrava un'iperbole la frase con cui Romano Prodi ha
voluto sintetizzare la questione Rai, chiarendo che si
trattava di una faccenda talmente difficile da risolvere
che, in confronto, l'organizzazione della missione di
pace in Libano appariva quasi un gioco da ragazzi.
Sembrava, appunto, solo una battuta. Poi, lo stallo del
consiglio di amministrazione di mercoledì scorso e
l'incapacità della struttura di governo aziendale di
varare un semplice riequilibrio di forze attraverso
qualche nomina mirata, ha reso evidente a tutti che la
Rai è oggi più di ieri il laboratorio politico del
Paese, l'interfaccia della capacità di governare di
questa maggioranza e il punto di snodo della sua reale
possibilità di incidenza sul cambiamento delle regole
imposte da cinque anni di pressione berlusconiana sul
Paese. La visione d'insieme è piuttosto sconfortante.
Non stiamo parlando di lottizzazione, di "pizzini" con
le nomine abbandonati sui divani di Montecitorio e
neppure di accuse pretestuose di occupazione e di editti
di proscrizione lanciati da Sofia o da Bologna dai
leader di turno; quelle sono simpatiche note di colore a
margine di una verità valida da 50 anni a questa parte:
sulla Rai il governo gioca la sua sopravvivenza e quella
della maggioranza che lo sostiene, in questo caso solo
per una manciata di voti. E questa sottilissima linea di
confine rende, oggi, questa partita particolarmente
delicata e, in qualche modo, definitiva.
Dalle poltrone della Rai - e dall'accordo bipartisan
che si potrebbe concretizzare su di esse - passa la
possibilità di trovare sponde utili ad un passaggio
morbido della Finanziaria, così come su altre questioni
sul tappeto non meno urgenti. Ma, soprattutto, in queste
ore che precedono il prossimo consiglio di
amministrazione di martedì prossimo, al settimo piano di
viale Mazzini si fanno i conti con due questioni
dirimenti per la maggioranza e vitali per il leader
dell'opposizione: la legge sul conflitto d'interessi e
la revisione della legge Gasparri. Non è in gioco,
insomma, la sopravvivenza di Clemente Mimun al Tg1 e
neppure il rafforzamento dell'asse economico politico
tra il patto di sindacato del Corriere della Sera e il
premier Prodi attraverso la nomina di Gianni Riotta: il
Cavaliere sta obbligando i consiglieri di stretta
osservanza polista a "resistere, resistere, resistere",
facendo ostruzionismo sul via libera al cosiddetto "Rai-baltone"
in cambio di un accordo che disinneschi la legge sul
conflitto d'interesse e ammorbidisca la revisione della
Gasparri. Soprattutto in merito al Sic (sistema
integrato delle comunicazioni) che fissa i tetti
antitrust per le televisioni e che, così com'è formulato
oggi, ha consentito a Mediaset, negli ultimi cinque
anni, di far volare il fatturato oltre ogni più rosea
previsione. Un ricatto a cui Prodi, tuttavia, non ha
alcuna intenzione di soggiacere, lo dimostra il
tentativo di mettere un uomo a lui vicino (Riotta,
appunto) sulla plancia di comando della testata
ammiraglia Rai, a ribadire non solo la forza della
propria leadership, ma anche della volontà di questo
esecutivo di cambiare le carte in tavola con
determinazione e senza sconti.
Potrà sembrare, anche questa, un'iperbole, ma da come
finirà la partita Rai si potrà capire la reale capacità
di questo governo di durare cinque anni e di mettere
mano seriamente alle riforme di cui il Paese ha urgente
necessità. A favore dell'Unione, in queste ore, è anche
intervenuto un fatto nuovo. La netta presa di distanza
del leader Udc, Casini, da Berlusconi ("Non voglio
morire berlusconiano") si è riverberata sul tavolo del
cda Rai come la possibilità che il consigliere
centrista, Marco Staderini, possa votare con i
consiglieri dell'Unione il previsto pacchetto di nomine
di martedì prossimo, di fatto ribaltando l'attuale
maggioranza del consiglio che è, tutt'ora, di stampo
polista. L'Udc, quindi, ancora ago della bilancia e
forza politica di responsabilità quando c'è da decidere
qualcosa per il bene del paese e a discapito degli
interessi del proprio leader di coalizione? E' ancora
presto per dirlo, ma i segnali ci sono tutti.
Diversamente, infatti, si assisterebbe ad uno show
down dove, a rimetterci, non sarebbe solo la Rai, ma
anche l'Unione e, paradossalmente, anche la Cdl per
inevitabili rappresaglie successive.
Facciamo un quadro. Allo stato attuale, non c'è
alcuna possibilità che il consiglio Rai raggiunga un
accordo su tutte le nomine necessarie. La Cdl ha, oggi,
11 testate su 14 sotto il controllo di un uomo di area
del centrodestra. Le testate Rai in maggiore sofferenza
(Tg2, Radio Rai, Rai International, relazioni esterne)
sono sotto la direzione di uomini di An (Mazza,
Magliaro, Socillo, Paglia). Il Tg1, nonostante gli
ascolti di poco superiori al Tg5, come sottolineato dal
consigliere Ds Carlo Rognoni, non fa un'informazione
politica degna di un servizio pubblico: non si spiega la
politica agli italiani con il cronometro in mano e spazi
equamente suddivisi tra i vari esponenti politici.
Insomma, il pastone di Pionati deve essere superato.
La "riserva indiana" di Raitre funziona, ma anche lì
vanno fatti seri cambiamenti, così come è tuttora
vacante la direzione di Rainews 24 perché Roberto
Morrione è andato in pensione e il cda non è stato
ancora in grado di sostituirlo. A queste poltrone, di
maggiore visibilità popolare, si aggiungono tutta una
serie di altre di struttura, meno visibili ma
strategiche per il funzionamento dell'azienda, a partire
dal direttore del personale. Un quadro di insieme,
insomma, che va cambiato, per consentire all'azienda di
continuare a stare sul mercato e continuare a sfidare la
concorrenza. Fatto che l'opposizione al governo non
vuole nel modo più assoluto. Una Rai inginocchiata,
paralizzata, inerte è quanto di meglio Berlusconi possa
volere.
Proprio per questo, si diceva, non è possibile che il
cda Rai si metta d'accordo su tutto. E' invece più che
probabile che martedì prossimo, se i centristi, con
Staderini, non apriranno uno squarcio nel buio passando
all'opposizione, che l'intero pacchetto di nomine venga
bocciato. A quel punto il direttore generale Cappon si
dimetterebbe (l'ha già detto) e a ruota se ne andrebbero
anche i consiglieri di centrosinistra e questo aprirebbe
una crisi profonda nel servizio pubblico tv. Con il
governo che, a quel punto, sarebbe costretto in qualche
modo a mettere le mani sulla gestione della Rai
cambiando alcune norme della Gasparri per decreto, visto
che ancora non è stata formata la commissione di
vigilanza Rai a cui spetta il potere di nomina dei
consiglieri.
Ma perché si è arrivati a questo punto? Dopo quattro
mesi di governo di centrosinistra, ancora non è chiaro
come la pensi l'Unione nella sua complessità riguardo al
futuro del servizio pubblico tv. Negli ultimi giorni se
ne sono sentite di tutti i colori: dalla privatizzazione
a pezzi (vecchio pallino dalemiano) alla Fondazione (Gentiloni),
fino al commissariamento (Pecoraro Scanio) e alla
trasformazione in una Spa non più anomala come ora, ma
reale. Non c'è una linea condivisa. Non c'era nel
programma dell'Unione (che, su 400 pagine, aveva
dedicato alla Rai solo un foglio e mezzo), ed è in
ordine sparso oggi. Per evitare di fare come Berlusconi
(che, appena insediato, non fece prigionieri a viale
Mazzini) l'Unione è riuscita a rivoltare l'arma della
Rai contro di sé: indecisione, tentennamenti,
inadeguatezza politica, troppi appetiti da soddisfare e
nessuna idea buona per metterli tutti a tacere. Così
adesso, con una Finanziaria difficile da sostenere
davanti al Parlamento e anche davanti agli elettori, il
governo Prodi si trova a dover risolvere - e in gran
fretta - anche la questione del servizio pubblico
radiotelevisivo. Senza sapere da che parte cominciare,
con poche idee e molto confuse. Forse basterebbe
cominciare a ragionare da un punto, da qualcosa di
sinistra. Che vede la Rai come un servizio pubblico che
appartiene ai cittadini e non ai partiti. Ci vorrebbe,
insomma, insieme alla sacrosanta necessità di strappare
l'azienda dagli artigli berlusconiani, il coraggio di
ritirarsi da viale Mazzini e restituire alla Rai la
capacità di governarsi, assegnandole una struttura da
vera azienda e non da mostro giuridico come è oggi. Ma
non lo faranno mai. Neppure a braccia alzate. Nonostante
avessero promesso il contrario.
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