C’è sempre un’inchiesta della
magistratura che, alla fine, riesce a
dipanare situazioni che la politica ha
creato per convenienza, in dispregio delle
regole e di cui non riesce più a venire a
capo. Così, dopo più di un anno di
polemiche e discussioni intorno
all’impossibilità di rimuovere almeno uno
dei consiglieri d’amministrazione della
Rai in quota Polo, ecco che un’inchiesta
della procura di Roma apre un varco sulla
possibilità di ridare alla Rai un governo
che faccia uscire l’azienda dal porto
delle nebbie dei veti incrociati e dei
ricatti in cui è caduta. Nell’ambito
dell’inchiesta sui cosiddetti “stipendi
d’oro” ai manager pubblici, la Procura di
Roma ha riaperto il capitolo della
discussa nomina di Alfredo Meocci a
direttore generale della Rai -
successivamente dichiarato incompatibile
dall’ Agcom - e che è costata all’azienda
una multa iperbolica di 14,8 milioni di
euro, esattamente pari all’attivo di
bilancio 2005 dichiarato dall’azienda. I
cinque consiglieri d'amministrazione della
Rai che votarono a favore della nomina a
direttore generale di Alfredo Meocci, sono
stati iscritti sul registro degli
indagati. Per loro, ossia per Marco
Staderini, Giovanna Bianchi Clerici,
Angelo Petroni, Gennaro Malgeri e Giuliano
Urbani, l’accusa è di abuso d’ufficio in
base all’art. 323 del codice penale.
Tutti sapevano perfettamente che la nomina
di Meocci violava la legge, ma preferirono
obbedire a Berlusconi che, probabilmente,
voleva ripagare l’ex dg Rai dei servizi
resi nella consulenza alla stesura della
legge Gasparri e della tutela degli
interessi Mediaset difesa, con
discrezione, in veste di consigliere dell’Authority.
Un eccesso di servilismo che adesso tutti
e cinque potrebbero essere chiamati a
restituire a caro prezzo.
Il fatto avvenne il 4 agosto del 2005
quando il cda della Rai votò a maggioranza
il via libera a Meocci. I tre consiglieri
di area Unione, ossia Nino Rizzo Nervo,
Carlo Rognoni e Sandro Curzi, votarono
contro mentre il presidente, Claudio
Petruccioli, si astenne. In realtà, la
situazione era stata chiara fin dai primi
momenti, visto che la legge era sotto gli
occhi di tutti: chi ha ricoperto incarichi
di “controllore” della Rai, attraverso l’Agcom,
non può essere nominato tra i
“controllati” nei cinque anni successivi.
Le perplessità dei consiglieri Rai
dell’Unione furono anche suffragate da
diversi pareri legali che paventarono la
possibilità di sanzioni successive, fatto
che avvenne puntualmente con la pesante
multa comminata dall'Agcom alla Rai e allo
stesso Meocci (373 mila euro).
Sanzione poi confermata dal Tar del Lazio
che respinse anche il ricorso di
presentato dall’ex dg che, subito dopo, si
autosospese. La cronaca, quindi, lascia
poco spazio alle interpretazioni. Per
compiacere Berlusconi, i suoi referenti
nel cda hanno fatto un gravissimo danno
economico (e non solo) all’azienda che si
trovavano ad amministrare. E che, guarda
il caso, è tutt’oggi la concorrente
principale di Mediaset: l’accusa di abuso
d’ufficio è dunque di rigore.
Ma c’è anche un altro aspetto che non può
emergere con chiarezza dalla semplice
esposizione dei fatti ed è quello legato
alla gestione dell’azienda. Nel corso
dell’ultimo anno, i cinque consiglieri Rai
in quota Polo hanno di fatto impedito la
governabilità dell’azienda, bloccando
nomine e investimenti, rimozioni e
promozioni, strategie e progetti sulle
nuove tecnologie: hanno imbalsamato la Rai
lasciando, conseguentemente, a Mediaset e
a Sky campo libero specialmente sul fronte
degli investimenti legati all’espansione
del digitale terrestre. Su questo fronte,
per di più, la multa comminata dall’Authority
in seguito alla nomina dell’incompatibile
Meocci, ha impedito all’azienda di avere
le risorse necessarie per sostenere un
rilancio tecnologico congruo per restare
sul mercato. Un’azione di disturbo tutta a
beneficio della concorrenza e di cui, ci
si augura, la magistratura terrà in conto
quando si tratterà di tirare le fila
dell’effettivo danno causato alla Rai dai
famigli berlusconiani. Nel frattempo
emerge con evidenza come l’indagine della
Procura di Roma pregiudichi fortemente la
legittimazione dell’attuale cda Rai e, di
conseguenza, le sue delibere: per il bene
dell’azienda, che è ancora un bene
pubblico, i cinque consiglieri ancora al
soldo del Cavaliere dovrebbero avere la
decenza di farsi da parte. Ma siccome non
lo faranno e vista la gravità della
situazione in cui versa la Rai con un cda
inquisito per i suoi tre quarti, sarebbe
auspicabile una severa presa di posizione
da parte del Parlamento (casomai
attraverso la Commissione di Vigilanza)
per rimettere l’azienda almeno all’interno
dei binari della legalità sostituendo
d’ufficio i cinque consiglieri sotto la
lente della Procura di Roma. I sindacati
dei lavoratori dell’azienda, a partire da
quello dei giornalisti Rai, l’Usigrai, un
primo passo intanto lo hanno fatto
decidendo di entrare nel processo come
parte civile “a tutela dei lavoratori e
dei giornalisti dell’azienda”. Ma è una
goccia in un mare. La vera svolta, a ben
guardare, è ancora nelle mani del ministro
del Tesoro, Padoa Schioppa, che si è
sempre rifiutato di sostituire il
consigliere di riferimento del dicastero
nel cda, ossia Angelo Maria Petroni,
nominato dal predecessore Siniscalco.
Adesso la Procura di Roma gli ha fornito
un elemento prezioso per chiederne,
almeno, la sospensione cautelativa,
consentendo un riequilibrio delle forze
politiche in campo sul tavolo del cda:
un’occasione che andrebbe colta senza
indugio e ci auguriamo che sia così.
D’altra parte, dopo i tanti tira e molla
sulla finanziaria, sarebbe veramente
deludente dover assistere, anche sulla
Rai, ad un medesimo, disgustoso teatrino
di totale inadeguatezza politica e di
governo del Paese. A partire dalle sue
aziende principali.
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