Non mi aspettavo sconquassi dall’uragano Sandy. Pensavo che enfatizzarne i
rischi potesse rientrare in una strategia di propaganda elettorale, per
dimostrare l’efficienza dell’Amministrazione sotto la ferma e lungimirante
guida di Obama, quando è ancora vivo nella memoria il pressappochismo
che sotto la presidenza del secondo Bush lasciò al suo destino una metropoli
come New Orleans. In un dibattito pre-elettorale in cui, seguendo la prassi
ben collaudata negli USA e ora dilagante anche da noi, tutti i mezzucci sono
utilizzabili per far colpo su quella minoranza che ancora vota, speculare su
paure indotte dall’abilità dei manipolatori dei media sarebbe stato un
artificio non peggiore di tanti altri.
Non peggiore delle insopportabili scenette melense delle mogli dei
candidati, con gli sguardi adoranti rivolti ai mariti, i buoni sentimenti
esibiti per le famigliole raccolte attorno ai bimbi, quelle famigliole nidi
di vipere e fonte di tanti redditi per gli avvocati. Non peggiore dei colpi
bassi a danno del contendente, con la mobilitazione del gossip alla ricerca
di scandaletti a sfondo sessuale o di poco limpide operazioni finanziarie.
Invece la minaccia era reale e Sandy ha colpito con durezza.
Si impongono tre considerazioni.
La prima è che se fenomeni atmosferici da sempre considerati esclusivi delle
aree tropicali si verificano anche a latitudini come quelle europee, in zone
temperate, o addirittura a latitudini decisamente settentrionali del nostro
emisfero, la denuncia di chi rileva da tempo come i mutamenti climatici
siano una realtà minacciosa e potenzialmente sconvolgente, è fondata.
La seconda è la dimostrata inconsistenza delle ipotesi sulla onnipotenza di
una tecnologia statunitense capace di manipolare a proprio piacimento i
fenomeni atmosferici per indurre disastri quali alluvioni o desertificazioni
in aree dove vivono nazioni ostili all’impero. Siccità e vasti incendi
avevano già colpito non solo la Russia che subì un’ondata di caldo
eccezionale nell’estate dell’anno scorso, ma anche gli stessi USA,
ripetutamente. Il tanto discusso programma HAARP, che preparerebbe gli
scenari delle guerre future, combattute inducendo terremoti e disastri
climatici sui Paesi nemici, attribuisce al potere militarista americano,
nella mente di certi complottisti, un’onnipotenza che fortunatamente non ha.
Si tratta di un complottismo che finisce con lo screditare anche quella
ricerca seria di cause dei grandi fenomeni economici, politici e sociali,
diverse da quelle conclamate. Una cosa è smascherare le menzogne sulla
versione ufficiale dell’11 settembre, altra cosa fantasticare su
apparecchiature capaci di produrre terremoti o uragani.
La terza è la constatazione che le forze della natura sono più potenti delle
nostre previsioni e delle difese che possiamo mettere in atto. Confesso una
certa soddisfazione nel rilevarlo. Pur non esitando a dichiararmi
apertamente e visceralmente antiamericano, non è la soddisfazione di chi
vede gli odiosi yankee puniti da una sorte di nemesi di origine divina. La
nemesi che colpisce chi folgora dall’alto dei cieli, coi droni che volano di
notte come di notte agiscono i ladri, macchine teleguidate da giovani
tecnici che come in un videogioco, al sicuro in una base degli Stati Uniti,
masticando chewing gum premono un pulsante e fanno scomparire case, persone,
vita: macchine senza aperture, senza occhi che non siano elettronici,
sigillate nella loro gelida efficienza.
Piuttosto si tratta del compiacimento di vedere ridimensionata la pretesa
della tecnologia moderna di assoggettare tutto al proprio controllo. Lo
spettacolo della furia degli elementi che sconvolgono New York ha qualcosa
di profondamente simbolico. Evoca scenari, diventa emblema e segno. Possiamo
dirlo con quella punta di cinismo che può permettersi un osservatore
lontano. Ma il destino a cui richiamano quelle acque e quel fuoco, incombe
su tutti.
Luciano Fuschini
www.ilribelle.com
31.10.2012
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