Dalla cattedra dell'università di Regensburg
Benedetto XVI riflette su religione e violenza dal versante della
ragione. Cristianesimo e ellenismo, cultura moderna e fede. Il dialogo
fra culture e i pericoli per l'occidente.
Illustri Signori, gentili Signore!
È per me un momento emozionante stare ancora una volta sulla cattedra
dell'università e una volta ancora poter tenere una lezione. I miei
pensieri, contemporaneamente, ritornano a quegli anni in cui, dopo un
bel periodo presso l'Istituto superiore di Freising, iniziai la mia
attività di insegnante accademico all’università di Bonn. Era – nel 1959
– ancora il tempo della vecchia università dei professori ordinari. Per
le singole cattedre non esistevano né assistenti né dattilografi, ma in
compenso c'era un contatto molto diretto con gli studenti e soprattutto
anche tra i professori. Ci si incontrava prima e dopo la lezione nelle
stanze dei docenti. I contatti con gli storici, i filosofi, i filologi e
naturalmente anche tra le due facoltà teologiche erano molto stretti.
Una volta in ogni semestre c'era un cosiddetto dies academicus, in cui
professori di tutte le facoltà si presentavano davanti agli studenti
dell'intera università, rendendo così possibile una vera esperienza di
universitas: il fatto che noi, nonostante tutte le specializzazioni,
che a volte ci rendono incapaci di comunicare tra di noi, formiamo un
tutto e lavoriamo nel tutto dell'unica ragione con le sue varie
dimensioni, stando così insieme anche nella comune responsabilità per il
retto uso della ragione – questo fatto diventava esperienza viva.
L'università, senza dubbio, era fiera anche delle sue due facoltà
teologiche. Era chiaro che anch'esse, interrogandosi sulla
ragionevolezza della fede, svolgono un lavoro che necessariamente fa
parte del "tutto" dell'universitas scientiarum, anche se non tutti
potevano condividere la fede, per la cui correlazione con la ragione
comune si impegnano i teologi. Questa coesione interiore nel cosmo della
ragione non venne disturbata neanche quando una volta trapelò la notizia
che uno dei colleghi aveva detto che nella nostra università c'era una
stranezza: due facoltà che si occupavano di una cosa che non esisteva –
di Dio. Che anche di fronte ad uno scetticismo così radicale resti
necessario e ragionevole interrogarsi su Dio per mezzo della ragione e
ciò debba essere fatto nel contesto della tradizione della fede
cristiana: questo, nell'insie¬me dell'università, era una convinzione
indiscussa.
Tutto ciò mi tornò in mente, quando recentemente lessi la parte edita
dal professore Theodore Khoury (Münster) del dialogo che il dotto
imperatore bizantino Manuele II Paleologo, forse durante i quartieri
d'inverno del 1391 presso Ankara, ebbe con un persiano colto su
cristianesimo e islam e sulla verità di ambedue. Fu poi probabilmente
l'imperatore stesso ad annotare, durante l'assedio di Costantinopoli tra
il 1394 e il 1402, questo dialogo; si spiega così perché i suoi
ragionamenti siano riportati in modo molto più dettagliato che non le
risposte dell'erudito persiano. Il dialogo si estende su tutto l'ambito
delle strutture della fede contenute nella Bibbia e nel Corano e si
sofferma soprattutto sull'immagine di Dio e dell'uomo, ma
necessariamente anche sempre di nuovo sulla relazione tra le "tre
Leggi": Antico Testamento – Nuovo Testamento – Corano. Vorrei toccare in
questa lezione solo un argomento – piuttosto marginale nella struttura
del dialogo – che, nel contesto del tema "fede e ragione", mi ha
affascinato e che mi servirà come punto di partenza per le mie
riflessioni su questo tema.
Nel settimo colloquio (διάλεξις – controversia) edito dal prof. Khoury,
l'imperato¬re tocca il tema della jihād (guerra santa). Sicuramente
l'imperatore sapeva che nella sura 2, 256 si legge: "Nessuna costrizione
nelle cose di fede". È una delle sure del periodo iniziale in cui
Maometto stesso era ancora senza potere e minacciato. Ma, naturalmente,
l'imperatore conosceva anche le disposizioni, sviluppate successivamente
e fissate nel Corano, circa la guerra santa. Senza soffermarsi sui
particolari, come la differenza di trattamento tra coloro che possiedono
il "Libro" e gli "increduli", egli, in modo sorprendentemente brusco, si
rivolge al suo interlocutore semplicemente con la domanda centrale sul
rapporto tra religione e violenza in genere, dicendo: "Mostrami pure ciò
che Maometto ha portato di nuovo, e vi troverai soltanto delle cose
cattive e disumane, come la sua direttiva di diffondere per mezzo della
spada la fede che egli predicava". L'imperatore spiega poi
minuziosamente le ragioni per cui la diffusione della fede mediante la
violenza è cosa irragionevole. La violenza è in contrasto con la natura
di Dio e la natura dell'anima. "Dio non si compiace del sangue; non
agire secondo ragione (σὺν λόγω) è contrario alla natura di Dio. La fede
è frutto dell'anima, non del corpo. Chi quindi vuole condurre qualcuno
alla fede ha bisogno della capacità di parlare bene e di ragionare
correttamente, non invece della violenza e della minaccia… Per
convincere un'ani¬ma ragionevole non è necessario disporre né del
proprio braccio, né di strumenti per colpire né di qualunque altro mezzo
con cui si possa minacciare una persona di morte…".
L'affermazione decisiva in questa argomentazione contro la conversione
mediante la violenza è: non agire secondo ragione è contrario alla
natura di Dio. L'editore, Theodore Khoury, commenta: per l'imperatore,
come bizantino cresciuto nella filosofia greca, quest'affermazione è
evidente. Per la dottrina musulmana, invece, Dio è assolutamente
trascendente. La sua volontà non è legata a nessuna delle nostre
categorie, fosse anche quella della ragionevolezza. In questo contesto
Khoury cita un'opera del noto islamista francese R. Arnaldez, il quale
rileva che Ibn Hazn si spinge fino a dichiarare che Dio non sarebbe
legato neanche dalla sua stessa parola e che niente lo obbligherebbe a
rivelare a noi la verità. Se fosse sua volontà, l'uomo dovrebbe
praticare anche l'idolatria.
Qui si apre, nella comprensione di Dio e quindi nella realizzazione
concreta della religione, un dilemma che oggi ci sfida in modo molto
diretto. La convinzione che agire contro la ragione sia in
contraddizione con la natura di Dio, è soltanto un pensiero greco o vale
sempre e per se stesso? Io penso che in questo punto si manifesti la
profonda concordanza tra ciò che è greco nel senso migliore e ciò che è
fede in Dio sul fondamento della Bibbia. Modificando il primo versetto
del Libro della Genesi, Giovanni ha iniziato il prologo del suo Vangelo
con le parole: "In principio era il λόγος". È questa proprio la stessa
parola che usa l'imperatore: Dio agisce con logos. Logos significa
insieme ragione e parola – una ragione che è creatrice e capace di
comunicarsi ma, appunto, come ragione. Giovanni con ciò ci ha donato la
parola conclusiva sul concetto biblico di Dio, la parola in cui tutte le
vie spesso faticose e tortuose della fede biblica raggiungono la loro
meta, trovano la loro sintesi. In principio era il logos, e il logos è
Dio, ci dice l'evangelista. L'incontro tra il messaggio biblico e il
pensiero greco non era un semplice caso. La visione di san Paolo,
davanti al quale si erano chiuse le vie dell'Asia e che, in sogno, vide
un Macedone e sentì la sua supplica: "Passa in Macedonia e aiutaci!" (cfr
At 16,6-10) – questa visione può essere interpretata come una
"condensazione" della necessità intrinseca di un avvicinamento tra la
fede biblica e l'interrogar¬si greco.
In realtà, questo avvicinamento ormai era avviato da molto tempo. Già
il nome misterioso di Dio dal roveto ardente, che distacca questo Dio
dall'insieme delle divinità con molteplici nomi affermando soltanto il
suo essere, è, nei confronti del mito, una contestazione con la quale
sta in intima analogia il tentativo di Socrate di vincere e superare il
mito stesso. Il processo iniziato presso il roveto raggiunge,
all'interno dell'Anti¬co Testamento, una nuova maturità durante
l'esilio, dove il Dio d'Israele, ora privo della Terra e del culto, si
annuncia come il Dio del cielo e della terra, presentandosi con una
semplice formula che prolunga la parola del roveto: "Io sono". Con
questa nuova conoscenza di Dio va di pari passo una specie di
illuminismo, che si esprime in modo drastico nella derisione delle
divinità che sono soltanto opera delle mani dell'uomo (cfr Sal 115).
Così, nonostante tutta la durezza del disaccordo con i sovrani
ellenistici, che volevano ottenere con la forza l'adeguamen¬to allo
stile di vita greco e al loro culto idolatrico, la fede biblica, durante
l'epoca ellenistica, andava interiormente incontro alla parte migliore
del pensiero greco, fino ad un contatto vicendevole che si è poi
realizzato specialmente nella tarda letteratura sapienziale. Oggi noi
sappiamo che la traduzione greca dell'Antico Testamento, realizzata in
Alessandria – la "Settanta" –, è più di una semplice (da valutare forse
in modo poco positivo) traduzione del testo ebraico: è infatti una
testimonianza testuale a se stante e uno specifico importante passo
della storia della Rivelazione, nel quale si è realizzato questo
incontro in un modo che per la nascita del cristianesimo e la sua
divulgazione ha avuto un significato decisivo. Nel profondo, vi si
tratta dell'incontro tra fede e ragione, tra autentico illuminismo e
religione. Partendo veramente dall'inti¬ma natura della fede cristiana
e, al contempo, dalla natura del pensiero ellenistico fuso ormai con la
fede, Manuele II poteva dire: Non agire "con il logos" è contrario alla
natura di Dio.
Per onestà bisogna annotare a questo punto che, nel tardo Medioevo, si
sono sviluppate nella teologia tendenze che rompono questa sintesi tra
spirito greco e spirito cristiano. In contrasto con il cosiddetto
intellettualismo agostiniano e tomista iniziò con Duns Scoto una
impostazione volontaristica, la quale alla fine portò all'affermazione
che noi di Dio conosceremmo soltanto la voluntas ordinata. Al di là di
essa esisterebbe la libertà di Dio, in virtù della quale Egli avrebbe
potuto creare e fare anche il contrario di tutto ciò che effettivamente
ha fatto. Qui si profilano delle posizioni che, senz'altro, possono
avvicinarsi a quelle di Ibn Hazn e potrebbero portare fino all'immagi¬ne
di un Dio-Arbitrio, che non è legato neanche alla verità e al bene. La
trascendenza e la diversità di Dio vengono accentuate in modo così
esagerato, che anche la nostra ragione, il nostro senso del vero e del
bene non sono più un vero specchio di Dio, le cui possibilità abissali
rimangono per noi eternamente irraggiungibili e nascoste dietro le sue
decisioni effettive. In contrasto con ciò, la fede della Chiesa si è
sempre attenuta alla convinzione che tra Dio e noi, tra il suo eterno
Spirito creatore e la nostra ragione creata esista una vera analogia, in
cui certo le dissomiglianze sono infinitamente più grandi delle
somiglianze, non tuttavia fino al punto da abolire l'analogia e il suo
linguaggio (cfr Lat IV). Dio non diventa più divino per il fatto che lo
spingiamo lontano da noi in un volontarismo puro ed impenetrabile, ma il
Dio veramente divino è quel Dio che si è mostrato come logos e come
logos ha agito e agisce pieno di amore in nostro favore. Certo, l'amore
"sorpassa" la conoscenza ed è per questo capace di percepire più del
semplice pensiero (cfr Ef 3,19), tuttavia esso rimane l'amore del
Dio-logos, per cui il culto cristiano è λογικὴ λατρεία – un culto che
concorda con il Verbo eterno e con la nostra ragione (cfr Rm 12,1).
Il qui accennato vicendevole avvicinamento interiore, che si è avuto
tra la fede biblica e l'interrogarsi sul piano filosofico del pensiero
greco, è un dato di importanza decisiva non solo dal punto di vista
della storia delle religioni, ma anche da quello della storia universale
– un dato che ci obbliga anche oggi. Considerato questo incontro, non è
sorprendente che il cristianesimo, nonostante la sua origine e qualche
suo sviluppo importante nell'Oriente, abbia infine trovato la sua
impronta storicamente decisiva in Europa. Possiamo esprimerlo anche
inversamente: questo incontro, al quale si aggiunge successivamente
ancora il patrimonio di Roma, ha creato l'Europa e rimane il fondamento
di ciò che, con ragione, si può chiamare Europa.
Alla tesi che il patrimonio greco, criticamente purificato, sia una
parte integrante della fede cristiana, si oppone la richiesta della
dis-ellenizzazione del cristianesimo – una richiesta che dall'inizio
dell'età moderna domina in modo crescente la ricerca teologica. Visto
più da vicino, si possono osservare tre onde nel programma della
dis-ellenizzazione: pur collegate tra di loro, esse tuttavia nelle loro
motivazioni e nei loro obiettivi sono chiaramente distinte l'una
dall'altra.
La dis-ellenizzazione emerge dapprima in connessione con i postulati
fondamentali della Riforma del XVI secolo. Considerando la tradizione
delle scuole teologiche, i riformatori si vedevano di fronte ad una
sistematizzazione della fede condizionata totalmente dalla filosofia, di
fronte cioè ad una determinazione della fede dall'esterno in forza di un
modo di pensare che non derivava da essa. Così la fede non appariva più
come vivente parola storica, ma come elemento inserito nella struttura
di un sistema filosofico. Il sola Scriptura invece cerca la pura forma
primordiale della fede, come essa è presente originariamente nella
Parola biblica. La metafisica appare come un presupposto derivante da
altra fonte, da cui occorre liberare la fede per farla tornare ad essere
totalmente se stessa. Con la sua affermazione di aver dovuto accantonare
il pensare per far spazio alla fede, Kant ha agito in base a questo
programma con una radicalità imprevedibile per i riformatori. Con ciò
egli ha ancorato la fede esclusivamente alla ragione pratica, negandole
l'accesso al tutto della realtà.
La teologia liberale del XIX e del XX secolo apportò una seconda onda
nel programma della dis-ellenizzazione: di essa rappresentante eminente
è Adolf von Harnack. Durante il tempo dei miei studi, come nei primi
anni della mia attività accademica, questo programma era fortemente
operante anche nella teologia cattolica. Come punto di partenza era
utilizzata la distinzione di Pascal tra il Dio dei filosofi ed il Dio di
Abramo, Isacco e Giacobbe. Nella mia prolusione a Bonn, nel 1959, ho
cercato di affrontare questo argomento. Non intendo riprendere qui tutto
il discorso. Vorrei però tentare di mettere in luce almeno brevemente la
novità che caratterizzava questa seconda onda di dis-ellenizzazione
rispetto alla prima. Come pensiero centrale appare, in Harnack, il
ritorno al semplice uomo Gesù e al suo messaggio semplice, che verrebbe
prima di tutte le teologizzazioni e, appunto, anche prima delle
ellenizzazioni: sarebbe questo messaggio semplice che costituirebbe il
vero culmine dello sviluppo religioso dell'umanità. Gesù avrebbe dato un
addio al culto in favore della morale. In definitiva, Egli viene
rappresentato come padre di un messaggio morale umanitario. Lo scopo di
ciò è in fondo di riportare il cristianesimo in armonia con la ragione
moderna, liberandolo, appunto, da elementi apparentemente filosofici e
teologici, come per esempio la fede nella divinità di Cristo e nella
trinità di Dio. In questo senso, l'esegesi storico-critica del Nuovo
Testamento sistema nuovamente la teologia nel cosmo dell'universi¬tà:
teologia, per Harnack, è qualcosa di essenzialmente storico e quindi di
strettamente scientifico. Ciò che essa indaga su Gesù mediante la
critica è, per così dire, espressione della ragione pratica e di
conseguenza anche sostenibile nell'insieme dell'università. Nel
sottofondo c'è l'autolimitazione moderna della ragione, espressa in modo
classico nelle "critiche" di Kant, nel frattempo però ulteriormente
radicalizzata dal pensiero delle scienze naturali. Questo concetto
moderno della ragione si basa, per dirla in breve, su una sintesi tra
platonismo (cartesianismo) ed empirismo, che il successo tecnico ha
confermato. Da una parte si presuppone la struttura matematica della
materia, la sua per così dire razionalità intrinseca, che rende
possibile comprenderla ed usarla nella sua efficacia operativa: questo
presupposto di fondo è, per così dire, l'elemento platonico nel concetto
moderno della natura. Dall'altra parte, si tratta della utilizzabilità
funzionale della natura per i nostri scopi, dove solo la possibilità di
controllare verità o falsità mediante l'esperimento fornisce la certezza
decisiva. Il peso tra i due poli può, a seconda delle circostanze, stare
più dall'una o più dall'altra parte. Un pensatore così strettamente
positivista come J. Monod si è dichiarato convinto platonico o
cartesiano.
Questo comporta due orientamenti fondamentali decisivi per la nostra
questione. Soltanto il tipo di certezza derivante dalla sinergia di
matematica ed empiria ci permette di parlare di scientificità. Ciò che
pretende di essere scienza deve confrontarsi con questo criterio. E così
anche le scienze che riguardano le cose umane, come la storia, la
psicologia, la sociologia e la filosofia, cercano di avvicinarsi a
questo canone della scientificità. Importante per le nostre riflessioni,
comunque, è ancora il fatto che il metodo come tale esclude il problema
Dio, facendolo apparire come problema ascientifico o pre-scientifico.
Con questo, però, ci troviamo davanti ad una riduzione del raggio di
scienza e ragione che è doveroso mettere in questione.
Torneremo ancora su questo argomento. Per il momento basta tener
presente che, in un tentativo alla luce di questa prospettiva di
conservare alla teologia il carattere di disciplina "scientifica", del
cristianesimo resterebbe solo un misero frammento. Ma dobbiamo dire di
più: è l'uomo stesso che con ciò subisce una riduzione. Poiché allora
gli interrogativi propriamente umani, cioè quelli del "da dove" e del
"verso dove", gli interrogativi della religione e dell'ethos, non
possono trovare posto nello spazio della comune ragione descritta dalla
"scienza" e devono essere spostati nell'ambito del soggettivo. Il
soggetto decide, in base alle sue esperienze, che cosa gli appare
religiosamente sostenibile, e la "coscienza" soggettiva diventa in
definitiva l'unica istanza etica. In questo modo, però, l'ethos e la
religione perdono la loro forza di creare una comunità e scadono
nell'ambito della discrezionalità personale. È questa una condizione
pericolosa per l'umanità: lo costatiamo nelle patologie minacciose della
religione e della ragione – patologie che necessariamente devono
scoppiare, quando la ragione viene ridotta a tal punto che le questioni
della religione e dell'ethos non la riguardano più. Ciò che rimane dei
tentativi di costruire un'etica partendo dalle regole dell'evoluzione o
dalla psicologia e dalla sociologia, semplicemente insufficiente.
Prima di giungere alle conclusioni alle quali mira tutto questo
ragionamento, devo accennare ancora brevemente alla terza onda della
dis-ellenizzazione che si diffonde attualmente. In considerazione
dell’incontro con la molteplicità delle culture si ama dire oggi che la
sintesi con l’ellenismo, compiutasi nella Chiesa antica, sarebbe stata
una prima inculturazione, che non dovrebbe vincolare le altre culture.
Queste dovrebbero avere il diritto di tornare indietro fino al punto che
precedeva quella inculturazione per scoprire il semplice messaggio del
Nuovo Testamento ed inculturarlo poi di nuovo nei loro rispettivi
ambienti. Questa tesi non è semplicemente sbagliata; è tuttavia
grossolana ed imprecisa. Il Nuovo Testamento, infatti, e stato scritto
in lingua greca e porta in se stesso il contatto con lo spirito greco –
un contatto che era maturato nello sviluppo precedente dell’Antico
Testamento. Certamente ci sono elementi nel processo formativo della
Chiesa antica che non devono essere integrati in tutte le culture. Ma le
decisioni di fondo che, appunto, riguardano il rapporto della fede con
la ricerca della ragione umana, queste decisioni di fondo fanno parte
della fede stessa e ne sono gli sviluppi, conformi alla sua natura.
Con ciò giungo alla conclusione. Questo tentativo, fatto solo a grandi
linee, di critica della ragione moderna dal suo interno, non include
assolutamente l’opinione che ora si debba ritornare indietro, a prima
dell’illuminismo, rigettando le convinzioni dell’età moderna. Quello che
nello sviluppo moderno dello spirito è valido viene riconosciuto senza
riserve: tutti siamo grati per le grandiose possibilità che esso ha
aperto all’uomo e per i progressi nel campo umano che ci sono stati
donati. L’ethos della scientificità, del resto, è volontà di obbedienza
alla verità e quindi espressione di un atteggiamento che fa parte della
decisione di fondo dello spirito cristiano. Non ritiro, non critica
negativa è dunque l’intenzione; si tratta invece di un allargamento del
nostro concetto di ragione e dell’uso di essa. Perché con tutta la gioia
di fronte alle possibilità dell'uomo, vediamo anche le minacce che
emergono da queste possibilità e dobbiamo chiederci come possiamo
dominarle. Ci riusciamo solo se ragione e fede si ritrovano unite in un
modo nuovo; se superiamo la limitazione autodecretata della ragione a
ciò che è verificabile nell'esperimento, e dischiudiamo ad essa
nuovamente tutta la sua ampiezza. In questo senso la teologia, non
soltanto come disciplina storica e umano-scientifica, ma come teologia
vera e propria, cioè come interrogativo sulla ragione della fede, deve
avere il suo posto nell'università e nel vasto dialogo delle scienze.
Solo così diventiamo anche capaci di un vero dialogo delle culture e
delle religioni – un dialogo di cui abbiamo un così urgente bisogno. Nel
mondo occidentale domina largamente l'opinione, che soltanto la ragione
positivista e le forme di filosofia da essa derivanti siano universali.
Ma le culture profondamente religiose del mondo vedono proprio in questa
esclusione del divino dall'universalità della ragione un attacco alle
loro convinzioni più intime. Una ragione, che di fronte al divino è
sorda e respinge la religione nell'ambito delle sottoculture, è incapace
di inserirsi nel dialogo delle culture. E tuttavia, la moderna ragione
propria delle scienze naturali, con l'intrinse¬co suo elemento
platonico, porta in sé, come ho cercato di dimostrare, un interrogativo
che la trascende insieme con le sue possibilità metodiche. Essa stessa
deve semplicemente accettare la struttura razionale della materia e la
corrispondenza tra il nostro spirito e le strutture razionali operanti
nella natura come un dato di fatto, sul quale si basa il suo percorso
metodico. Ma la domanda sul perché di questo dato di fatto esiste e deve
essere affidata dalle scienze naturali ad altri livelli e modi del
pensare – alla filosofia e alla teologia. Per la filosofia e, in modo
diverso, per la teologia, l'ascoltare le grandi esperienze e convinzioni
delle tradizioni religiose dell'umanità, specialmente quella della fede
cristiana, costituisce una fonte di conoscenza; rifiutarsi ad essa
significherebbe una riduzione inaccettabile del nostro ascoltare e
rispondere. Qui mi viene in mente una parola di Socrate a Fedone. Nei
colloqui precedenti si erano toccate molte opinioni filosofiche
sbagliate, e allora Socrate dice: "Sarebbe ben comprensibile se uno, a
motivo dell'irritazione per tante cose sbagliate, per il resto della sua
vita prendesse in odio ogni discorso sull'essere e lo denigrasse. Ma in
questo modo perderebbe la verità dell'essere e subirebbe un grande
danno". L'occiden¬te, da molto tempo, è minacciato da questa avversione
contro gli interrogativi fondamentali della sua ragione, e così può
subire solo un grande danno. Il coraggio di aprirsi all'ampiezza della
ragione, non il rifiuto della sua grandezza – è questo il programma con
cui una teologia impegnata nella riflessione sulla fede biblica, entra
nella disputa del tempo presente. "Non agire secondo ragione (con il
logos) è contrario alla natura di Dio", ha detto Manuele II, partendo
dalla sua immagine cristiana di Dio, all'interlocutore persiano. È a
questo grande logos, a questa vastità della ragione, che invitiamo nel
dialogo delle culture i nostri interlocutori. Ritrovarla noi stessi
sempre di nuovo, è il grande compito dell'università.
Nota: Di questo testo il Santo Padre si riserva di offrire, in un
secondo momento, una redazione fornita di note. L’attuale stesura deve
quindi considerarsi provvisoria.
17/09/2006 Archivio Notizie Papa ed Islam
Archivio Vaticano
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