Il papa conferma la
linea di dialogo e confronto dei suoi predecessori. Offerta apprezzata e
ricambiata. Ma il banco di prova è la reciprocità, aspetto che non può
più essere taciuto né tanto meno ridimensionato.
Dialogo, impegno comune, collaborazione.
Sono gli elementi chiave di una sorta di base programmatica che
Benedetto XVI, a nome dei cattolici, ha proposto idealmente ai musulmani
di tutto il mondo. Dalla Turchia, paese laico a maggioranza islamica, è
stato lanciato così un messaggio distensivo nel solco dello spirito del
Concilio Vaticano II e dei grandi gesti compiuti da Giovanni Paolo II.
Le polemiche seguite alla Lectio magistralis tenuta dal papa a Ratisbona
sembrano ricomporsi: nell’ambito delle regole ferree del protocollo di
Stato, il presidente della Diyanet, Alì Bardakoglu, spiega che
l’equivoco è stato chiarito, pur ribadendo il suo disappunto per quanto
detto dal papa a settembre. "Noi musulmani - ha chiarito - condanniamo
tutti i tipi di violenza e di terrore indipendentemente da chi li
commette e contro chi". Al tempo stesso, "durante i periodi che stiamo
attraversando, vediamo che l'islamofobia, che esprime una mentalità
secondo cui la religione islamica contiene e incoraggia la violenza, che
l'Islam si è diffuso nel mondo con la spada e che i musumani sono
potenziali utilizzatori di violenza, sta gradualmente crescendo". "Noi
uomini di religione e le istituzioni religiose - ha concluso - non
dovremmo essere schiavi di tali pregiudizi, nutriti da tali paure e
preoccupazioni e dovremmo agire con buon senso”.
Caso chiuso, dunque, e disponibilità al dialogo ricambiata. Eppure, se
il ragionamento si allarga, quali possono essere le basi pratiche di un
confronto? In un paese come la Turchia, la religione per paradosso è
solo uno dei tanti fattori in causa, insieme alla politica, come
dimostra, del resto, la presenza del premier Erdogan all’arrivo del papa
all’aeroporto, prima ipotizzata, poi confermata e, infine, solennizzata,
proprio nel giorno della sospensione dei negoziati con l’Unione Europea.
Ma negli altri contesti, ci sono margini di manovra reali?
Per rispondere, il criterio può essere soltanto uno: quello della
reciprocità, aspetto che non può più essere taciuto né tanto meno
ridimensionato. Dal Concilio in poi, la Chiesa ha scelto radicalmente
l’opzione dell’apertura al mondo, uno stile importante e irrinunciabile,
capace di costruire ponti e contatti ovunque. Ma si può dire altrettanto
di chi a parole continua a parlare di rispetto e di alleanze di civiltà,
mentre in concreto fa della disparità verso l’altro una norma?
Lo sanno bene i cattolici della Turchia e il patriarca ecumenico
Bartolomeo I (per lo Stato è un semplice cittadino), ma anche le
minoranze cristiane di tanti altri Paesi islamici dove le
discriminazioni sono all’ordine del giorno: realtà evocate bene dal papa
con la distinzione tra la libertà religiosa proclamata e quella
effettiva.
Ed è proprio qui che entra in gioco la politica, chiamata a realizzare
cambi di rotta che i leader religiosi possono magari soltanto evocare.
Un richiamo per la Turchia, ma non solo. Un tema di cui si parla da
anni, senza però fissare punti fermi. Anche questa, una forma bella e
buona di relativismo.
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