Nel libro di memorie del
cardinale Stanislao Dziwisz, già segretario di Giovanni Paolo II,
l'immagine di un papa uomo di preghiera e di azione che ha vissuto nella
semplicità. Ne parliamo con il coautore, il vaticanista Gian Franco
Svidercoschi.
Karol Wojtyla e Stanislao Dziwisz: la
storia di un “uomo diventato papa” nel ricordo del suo segretario. È
questo il filo conduttore di “Una vita con Karol”, il libro di memorie
dell’attuale arcivescovo di Cracovia, scritto a quattro mani con il
vaticanista Gian Franco Svidercoschi. Un dialogo che ripercorre
l’avventura umana e spirituale di Giovanni Paolo II, attraverso decine
di dettagli inediti, dagli anni polacchi all'elezione, dalla sfera
privata alle grandi trasformazioni politiche del pontificato, fino ad
arrivare al racconto delle ultime ore. Il cardinale Dziwisz rievoca così
la vita a Cracovia con “microspie dappertutto”, il commento scherzoso di
Wojtyla dopo l’elezione (“Li possano”, riferendosi ai cardinali),
l’incontro del papa con Madre Teresa a Calcutta (“Se potessi, farei il
papa da qui”). Ma anche il giorno dell’attentato del 1981, il
rapporto con Solidarnosc o il dolore per l’attentato alle Twin
Towers del 2001. Il tutto, spiega Gian Franco Svidercoschi a Korazym.org,
“evitando ogni forma di sensazionalismo, per far emergere la dimensione
più profonda e poco conosciuta del pontefice”. “Giovanni Paolo II è
stato un grande uomo di Dio – dice l’autore di "Una vita con Karol" –
capace di grandi gesti, ma anche di estrema semplicità, come quando sul
letto di morte decise di salutare per ultimo Francesco, l’addetto alle
pulizie dell’appartamento pontificio”.
Svidercoschi, lei è da sempre un grande conoscitore del
pontificato di Wojtyla. Dalle testimonianze del cardinale
Dziwisz, quale aspetto ulteriore ha avuto modo di cogliere?
“Sicuramente quello della preghiera, elemento costante di ogni sua
giornata, che ruotava intorno al lavoro, ma anche a lunghi momenti di
raccoglimento. Il papa era un innamorato di Dio: uno stile che non si
riduceva mai a puro misticismo, riflettendosi invece in ogni situazione
concreta. Di fronte alle grandi sfide del pontificato, Giovanni Paolo II
era solito chiedere a se stesso e ai suoi collaboratori come si sarebbe
comportato Cristo”.
Una fiducia totale…
“Sì. È bello vedere come la spiritualità fosse un tutt’uno con l’uomo di
azione. Ogni gesto, scelta o parola di Wojtyla nascevano da una libertà
interiore che tendenzialmente gli altri non avevano. Per questo, era
difficile etichettarlo e ha sbagliato chi lo ha fatto. Gli stessi
giudizi storici sulla sua azione politica, non valorizzano fino in fondo
la dimensione della libertà, radicata in un’esperienza di fede molto
concreta. Il “cosa farebbe Cristo” veniva applicato anche alla
politica”.
Da questo punto di vista, quali sono i risultati più eclatanti,
al di là delle semplificazioni del papa “anticomunista” o
“anticapitalista”?
“Nel libro viene fuori l’immagine di un papa rivoluzionario,
ma nel silenzio. Nei rapporti con la società, Giovanni Paolo II riuscì a
riconquistare la piazza, rompendo il monopolio della sinistra e di una
certa cultura laicista su temi come la pace, la giustizia e i diritti
umani. In questa maniera, ricorda don Stanislao, il papa ha tolto spazio
agli altri, ma senza obiettivi di conquista. La posta in gioco era
quella di un nuova testimonianza cristiana”.
Anche all’interno della Chiesa?
“Certo. Il suo modo di interpretare il papato è stato dirompente, specie
sul versante della declericalizzazione. Giovanni Paolo II ha dato
moltissimo spazio ai carismi laicali e comunitari, come dimostra
l’esperienza con i giovani, le donne e i movimenti, un capitolo a cui fa
riferimento lo stesso cardinale”.
In alcune parti del libro, sembra trasparire quasi un senso di
sorpresa vissuto da Giovanni Paolo II di fronte ai grandi cambiamenti
del suo pontificato. È così?
“Credo di sì. Il papa era talmente realizzato interiormente che riusciva
a sorprendere e anche a sorprendersi. E' la semplicità di una persona
che viveva in modo essenziale. Il cardinale Dziwisz, per esempio,
racconta la giornata tipo di Wojtyla in Vaticano: un papa evangelico,
senza nessun bene personale, capace di pregare per ore”.
Quali sono gli aneddoti che l’hanno colpita?
“Mi colpisce molto la visione di insieme. Ci sono episodi
bellissimi, come i gesti verso il Sud del mondo o la Cina. Si scopre
così che il papa studiò cinese, non tanto per il desiderio di compiere
un viaggio che sapeva irrealizzabile, ma per provare almeno ad avere un
contatto o inviare un messaggio. Allo stesso modo è significativo il suo
legame con mons. Oscar Romero, ucciso mentre celebrava messa, nella sua
diocesi di El Salvador. Nel 1983, prima del suo viaggio nel Paese,
alcuni vescovi del Celam chiesero al papa di non pregare sulla tomba di
Romero per il rischio di strumentalizzazioni. Lui rispose con fermezza
che avrebbe reso omaggio ad un vescovo colpito al cuore del suo stesso
ministero. E nel 2000, per il Giubileo, pretese che fosse inserito nella
lista dei martiri del ‘900 come “grande testimone del Vangelo”.
Insomma, i risvolti politici non erano un problema…
“Non è questo il punto, ma l’approccio evangelico ad ogni situazione.
Pensi al tanto contestato incontro in Cile con il dittatore Pinochet.
Bene, oggi il cardinale Dziwisz racconta che dopo essere stato costretto
ad affacciarsi al balcone del palazzo presidenziale, il Santo Padre
nell’udienza privata suggerì al dittatore di riconsegnare il potere alle
autorità civili, salvo incontrare subito dopo gli esponenti
dell’opposizione. Il cammino della democrazia cominciò da lì. C’è poi
un’altra immagine bellissima…”
Quale?
“Nel 1980, durante una visita nell’attuale Burkina Faso, Giovanni Paolo
II lanciò un forte appello alla comunità internazionale perché aiutasse
l’Africa. Quella richiesta fu elaborata il giorno prima dal papa,
insieme ad alcuni vescovi locali, tra cui il cardinale Gantin. Racconta
Stanislao che il Santo Padre chiese di essere aiutato. Si sedette
intorno ad un tavolo e insieme ai vescovi scrisse il testo.
Un’interpretazione concreta del principio di collegialità”.
In tanti anni di pontificato, Giovanni Paolo II ha mai sentito
la fatica del ruolo?
“Non direi, ma tra le righe emergono anche alcune incomprensioni. Specie
dopo il 2000, ammette il cardinale Dziwisz, poteva capitare che in Curia
o nelle chiese locali, le sue indicazioni non fossero perseguite nel
modo da lui proposto. Eppure, Giovanni Paolo II non se ne lamentava
perché aveva una grande fiducia, radicata in un ottimismo e nella sua
capacità di abbandonarsi a Dio. Questa è la costante che ha segnato ogni
momento della sua vita”.
Archivio Vaticano
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