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23/01/2007 'Una vita con Karol''. Gian Franco Svidercoschi: la libertà interiore di papa Wojtyla (Matteo Spicuglia, http://www.korazym.org)

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Nel libro di memorie del cardinale Stanislao Dziwisz, già segretario di Giovanni Paolo II, l'immagine di un papa uomo di preghiera e di azione che ha vissuto nella semplicità. Ne parliamo con il coautore, il vaticanista Gian Franco Svidercoschi.

Karol Wojtyla e Stanislao Dziwisz: la storia di un “uomo diventato papa” nel ricordo del suo segretario. È questo il filo conduttore di “Una vita con Karol”, il libro di memorie dell’attuale arcivescovo di Cracovia, scritto a quattro mani con il vaticanista Gian Franco Svidercoschi. Un dialogo che ripercorre l’avventura umana e spirituale di Giovanni Paolo II, attraverso decine di dettagli inediti, dagli anni polacchi all'elezione, dalla sfera privata alle grandi trasformazioni politiche del pontificato, fino ad arrivare al racconto delle ultime ore. Il cardinale Dziwisz rievoca così la vita a Cracovia con “microspie dappertutto”, il commento scherzoso di Wojtyla dopo l’elezione (“Li possano”, riferendosi ai cardinali), l’incontro del papa con Madre Teresa a Calcutta (“Se potessi, farei il papa da qui”). Ma anche il giorno dell’attentato del 1981, il rapporto con Solidarnosc o il dolore per l’attentato alle Twin Towers del 2001. Il tutto, spiega Gian Franco Svidercoschi a Korazym.org, “evitando ogni forma di sensazionalismo, per far emergere la dimensione più profonda e poco conosciuta del pontefice”. “Giovanni Paolo II è stato un grande uomo di Dio – dice l’autore di "Una vita con Karol" – capace di grandi gesti, ma anche di estrema semplicità, come quando sul letto di morte decise di salutare per ultimo Francesco, l’addetto alle pulizie dell’appartamento pontificio”.

Svidercoschi, lei è da sempre un grande conoscitore del pontificato di Wojtyla. Dalle testimonianze del cardinale  Dziwisz, quale aspetto ulteriore ha avuto modo di cogliere?
“Sicuramente quello della preghiera, elemento costante di ogni sua giornata, che ruotava intorno al lavoro, ma anche a lunghi momenti di raccoglimento. Il papa era un innamorato di Dio: uno stile che non si riduceva mai a puro misticismo, riflettendosi invece in ogni situazione concreta. Di fronte alle grandi sfide del pontificato, Giovanni Paolo II era solito chiedere a se stesso e ai suoi collaboratori come si sarebbe comportato Cristo”.

Una fiducia totale…
“Sì. È bello vedere come la spiritualità fosse un tutt’uno con l’uomo di azione. Ogni gesto, scelta o parola di Wojtyla nascevano da una libertà interiore che tendenzialmente gli altri non avevano. Per questo, era difficile etichettarlo e ha sbagliato chi lo ha fatto. Gli stessi giudizi storici sulla sua azione politica, non valorizzano fino in fondo la dimensione della libertà, radicata in un’esperienza di fede molto concreta. Il “cosa farebbe Cristo” veniva applicato anche alla politica”.

Da questo punto di vista, quali sono i risultati più eclatanti, al di là delle semplificazioni del papa “anticomunista” o “anticapitalista”?
“Nel libro viene fuori l’immagine di un papa rivoluzionario, ma nel silenzio. Nei rapporti con la società, Giovanni Paolo II riuscì a riconquistare la piazza, rompendo il monopolio della sinistra e di una certa cultura laicista su temi come la pace, la giustizia e i diritti umani. In questa maniera, ricorda don Stanislao, il papa ha tolto spazio agli altri, ma senza obiettivi di conquista. La posta in gioco era quella di un nuova testimonianza cristiana”.

Anche all’interno della Chiesa?
“Certo. Il suo modo di interpretare il papato è stato dirompente, specie sul versante della declericalizzazione. Giovanni Paolo II ha dato moltissimo spazio ai carismi laicali e comunitari, come dimostra l’esperienza con i giovani, le donne e i movimenti, un capitolo a cui fa riferimento lo stesso cardinale”.

In alcune parti del libro, sembra trasparire quasi un senso di sorpresa vissuto da Giovanni Paolo II di fronte ai grandi cambiamenti del suo pontificato. È così?
“Credo di sì. Il papa era talmente realizzato interiormente che riusciva a sorprendere e anche a sorprendersi. E' la semplicità di una persona che viveva in modo essenziale. Il cardinale Dziwisz, per esempio, racconta la giornata tipo di Wojtyla in Vaticano: un papa evangelico, senza nessun bene personale, capace di pregare per ore”.

Quali sono gli aneddoti che l’hanno colpita?
“Mi colpisce molto la visione di insieme. Ci sono episodi bellissimi, come i gesti verso il Sud del mondo o la Cina. Si scopre così che il papa studiò cinese, non tanto per il desiderio di compiere un viaggio che sapeva irrealizzabile, ma per provare almeno ad avere un contatto o inviare un messaggio. Allo stesso modo è significativo il suo legame con mons. Oscar Romero, ucciso mentre celebrava messa, nella sua diocesi di El Salvador. Nel 1983, prima del suo viaggio nel Paese, alcuni vescovi del Celam chiesero al papa di non pregare sulla tomba di Romero per il rischio di strumentalizzazioni. Lui rispose con fermezza che avrebbe reso omaggio ad un vescovo colpito al cuore del suo stesso ministero. E nel 2000, per il Giubileo, pretese che fosse inserito nella lista dei martiri del ‘900 come “grande testimone del Vangelo”.

Insomma, i risvolti politici non erano un problema…
“Non è questo il punto, ma l’approccio evangelico ad ogni situazione. Pensi al tanto contestato incontro in Cile con il dittatore Pinochet. Bene, oggi il cardinale Dziwisz racconta che dopo essere stato costretto ad affacciarsi al balcone del palazzo presidenziale, il Santo Padre nell’udienza privata suggerì al dittatore di riconsegnare il potere alle autorità civili, salvo incontrare subito dopo gli esponenti dell’opposizione. Il cammino della democrazia cominciò da lì. C’è poi un’altra immagine bellissima…”

Quale?
“Nel 1980, durante una visita nell’attuale Burkina Faso, Giovanni Paolo II lanciò un forte appello alla comunità internazionale perché aiutasse l’Africa. Quella richiesta fu elaborata il giorno prima dal papa, insieme ad alcuni vescovi locali, tra cui il cardinale Gantin. Racconta Stanislao che il Santo Padre chiese di essere aiutato. Si sedette intorno ad un tavolo e insieme ai vescovi scrisse il testo. Un’interpretazione concreta del principio di collegialità”.

In tanti anni di pontificato, Giovanni Paolo II ha mai sentito la fatica del ruolo?
“Non direi, ma tra le righe emergono anche alcune incomprensioni. Specie dopo il 2000, ammette il cardinale Dziwisz, poteva capitare che in Curia o nelle chiese locali, le sue indicazioni non fossero perseguite nel modo da lui proposto. Eppure, Giovanni Paolo II non se ne lamentava perché aveva una grande fiducia, radicata in un ottimismo e nella sua capacità di abbandonarsi a Dio. Questa è la costante che ha segnato ogni momento della sua vita”.

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