Pubblichiamo la lettera aperta al Presidente della
Repubblica Giorgio Napoletano Da Piergiorgio Welby, Co-Presidente
dell'Associazione Coscioni. Caro Presidente,
scrivo a Lei, e attraverso Lei mi rivolgo anche a quei
cittadini che avranno la possibilità di ascoltare queste mie parole, questo
mio grido, che non è di disperazione, ma carico di speranza umana e civile
per questo nostro Paese. Fino a due mesi e mezzo fa la mia vita era sì
segnata da difficoltà non indifferenti, ma almeno per qualche ora del giorno
potevo, con l'ausilio del mio computer, scrivere, leggere, fare delle
ricerche, incontrare gli amici su internet. Ora sono come sprofondato in un
baratro da dove non trovo uscita.
La giornata inizia con l'allarme del ventilatore polmonare
mentre viene cambiato il filtro umidificatore e il catheter mounth,
trascorre con il sottofondo della radio, tra frequenti aspirazioni delle
secrezioni tracheali, monitoraggio dei parametri ossimetrici, pulizie
personali, medicazioni, bevute di pulmocare. Una volta mi alzavo al più
tardi alle dieci e mi mettevo a scrivere sul pc. Ora la mia patologia, la
distrofia muscolare, si è talmente aggravata da non consentirmi di compiere
movimenti, il mio equilibrio fisico è diventato molto precario. A
mezzogiorno con l'aiuto di mia moglie e di un assistente mi alzo, ma sempre
più spesso riesco a malapena a star seduto senza aprire il computer perchè
sento una stanchezza mortale. Mi costringo sulla sedia per assumere almeno
per un'ora una posizione differente di quella supina a letto.
Tornato a letto, a volte, mi assopisco, ma mi risveglio
spaventato, sudato e più stanco di prima. Allora faccio accendere
la radio ma la ascolto distrattamente. Non riesco a concentrarmi perché
penso sempre a come mettere fine a questa vita. Verso le sei faccio un altro
sforzo a mettermi seduto, con l'aiuto di mia moglie Mina e mio nipote
Simone. Ogni giorno vado peggio, sempre più debole e stanco. Dopo circa
un'ora mi accompagnano a letto. Guardo la tv, aspettando che arrivi l'ora
della compressa del Tavor per addormentarmi e non sentire più nulla e nella
speranza di non svegliarmi la mattina.
Io amo la vita, Presidente. Vita è la donna che ti ama,
il vento tra i capelli, il sole sul viso, la passeggiata notturna con un
amico. Vita è anche la donna che ti lascia, una giornata di pioggia, l'amico
che ti delude. Io non sono né un malinconico né un maniaco depresso - morire
mi fa orrore, purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita - è solo un
testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni
biologiche. Il mio corpo non è più mio ... è lì, squadernato davanti a
medici, assistenti, parenti. Montanelli mi capirebbe. Se fossi svizzero,
belga o olandese potrei sottrarmi a questo oltraggio estremo ma sono
italiano e qui non c'è pietà.
Starà pensando, Presidente, che sto invocando per me una "morte dignitosa".
No, non si tratta di questo. E non parlo solo della mia, di morte.
La morte non può essere "dignitosa"; dignitosa, ovvero
decorosa, dovrebbe essere la vita, in special modo quando si va affievolendo
a causa della vecchiaia o delle malattie incurabili e inguaribili. La morte
è altro. Definire la morte per eutanasia "dignitosa" è un modo di negare la
tragicità del morire. È un continuare a muoversi nel solco dell'occultamento
o del travisamento della morte che, scacciata dalle case, nascosta da un
paravento negli ospedali, negletta nella solitudine dei gerontocomi, appare
essere ciò che non è. Cos'è la morte? La morte è una condizione
indispensabile per la vita. Ha scritto Eschilo: "Ostico, lottare. Sfacelo
m'assale, gonfia fiumana. Oceano cieco, pozzo nero di pena m'accerchia senza
spiragli. Non esiste approdo".
L'approdo esiste, ma l'eutanasia non è "morte dignitosa", ma morte
opportuna, nelle parole dell'uomo di fede Jacques Pohier. Opportuno è ciò
che "spinge verso il porto"; per Plutarco, la morte dei giovani è un
naufragio, quella dei vecchi un approdare al porto e Leopardi la definisce
il solo "luogo" dove è possibile un riposo, non lieto, ma sicuro.
In Italia, l'eutanasia è reato, ma ciò non vuol dire che non
"esista": vi sono richieste di eutanasia che non vengono accolte
per il timore dei medici di essere sottoposti a giudizio penale e viceversa,
possono venir praticati atti eutanasici senza il consenso informato di
pazienti coscienti. Per esaudire la richiesta di eutanasia, alcuni paesi
europei, Olanda, Belgio, hanno introdotto delle procedure che consentono al
paziente "terminale" che ne faccia richiesta di programmare con il medico il
percorso di "approdo" alla morte opportuna.
Una legge sull'eutanasia non è più la richiesta incomprensibile
di pochi eccentrici. Anche in Italia, i disegni di legge depositati
nella scorsa legislatura erano già quattro o cinque. L'associazione degli
anestesisti, pur con molta cautela, ha chiesto una legge più chiara; il
recente pronunciamento dello scaduto (e non ancora rinnovato) Comitato
Nazionale per la bioetica sulle Direttive Anticipate di Trattamento ha messo
in luce l'impossibilità di escludere ogni eventualità eutanasica nel caso in
cui il medico si attenga alle disposizioni anticipate redatte dai pazienti.
Anche nella diga opposta dalla Chiesa si stanno aprendo alcune falle che,
pur restando nell'alveo della tradizione, permettono di intervenire
pesantemente con le cure palliative e di non intervenire con terapie
sproporzionate che non portino benefici concreti al paziente. L'opinione
pubblica è sempre più cosciente dei rischi insiti nel lasciare al medico
ogni decisione sulle terapie da praticare. Molti hanno assistito un
famigliare, un amico o un congiunto durante una malattia incurabile e
altamente invalidante ed hanno maturato la decisione di, se fosse capitato a
loro, non percorrere fino in fondo la stessa strada. Altri hanno assistito
alla tragedia di una persona in stato vegetativo persistente.
Quando affrontiamo le tematiche legate al termine della vita,
non ci si trova in presenza di uno scontro tra chi è a favore della vita e
chi è a favore della morte: tutti i malati vogliono guarire, non morire. Chi
condivide, con amore, il percorso obbligato che la malattia impone alla
persona amata, desidera la sua guarigione. I medici, resi impotenti da
patologie finora inguaribili, sperano nel miracolo laico della ricerca
scientifica. Tra desideri e speranze, il tempo scorre inesorabile e, con il
passare del tempo, le speranze si affievoliscono e il desiderio di
guarigione diventa desiderio di abbreviare un percorso di disperazione,
prima che arrivi a quel termine naturale che le tecniche di rianimazione e i
macchinari che supportano o simulano le funzioni vitali riescono a spostare
sempre più in avanti nel tempo. Per il modo in cui le nostre possibilità
tecniche ci mantengono in vita, verrà un giorno che dai centri di
rianimazione usciranno schiere di morti-viventi che finiranno a vegetare per
anni. Noi tutti probabilmente dobbiamo continuamente imparare che morire è
anche un processo di apprendimento, e non è solo il cadere in uno stato di
incoscienza.
Sua Santità, Benedetto XVI, ha detto che "di fronte alla
pretesa, che spesso affiora, di eliminare la sofferenza, ricorrendo perfino
all'eutanasia, occorre ribadire la dignità inviolabile della vita umana, dal
concepimento al suo termine naturale". Ma che cosa c'è di "naturale" in una
sala di rianimazione? Che cosa c'è di naturale in un buco nella pancia e in
una pompa che la riempie di grassi e proteine? Che cosa c'è di naturale in
uno squarcio nella trachea e in una pompa che soffia l'aria nei polmoni? Che
cosa c'è di naturale in un corpo tenuto biologicamente in funzione con
l'ausilio di respiratori artificiali, alimentazione artificiale, idratazione
artificiale, svuotamento intestinale artificiale,
morte-artificialmente-rimandata? Io credo che si possa, per ragioni di fede
o di potere, giocare con le parole, ma non credo che per le stesse ragioni
si possa "giocare" con la vita e il dolore altrui. Quando un malato
terminale decide di rinunciare agli affetti, ai ricordi, alle amicizie, alla
vita e chiede di mettere fine ad una sopravvivenza crudelmente 'biologica' -
io credo che questa sua volontà debba essere rispettata ed accolta con
quella pietas che rappresenta la forza e la coerenza del pensiero laico.
Sono consapevole, Signor Presidente, di averle parlato
anche, attraverso il mio corpo malato, di politica, e di obiettivi
necessariamente affidati al libero dibattito parlamentare e non certo a un
Suo intervento o pronunciamento nel merito. Quello che però mi permetto di
raccomandarle è la difesa del diritto di ciascuno e di tutti i cittadini di
conoscere le proposte, le ragioni, le storie, le volontà e le vite che, come
la mia, sono investite da questo confronto. Il sogno di Luca Coscioni era
quello di liberare la ricerca e dar voce, in tutti i sensi, ai malati. Il
suo sogno è stato interrotto e solo dopo che è stato interrotto è stato
conosciuto. Ora siamo noi a dover sognare anche per lui.
Il mio sogno, anche come co-Presidente dell'Associazione
che porta il nome di Luca, la mia volontà, la mia richiesta, che voglio
porre in ogni sede, a partire da quelle politiche e giudiziarie è oggi nella
mia mente più chiaro e preciso che mai: poter ottenere l'eutanasia. Vorrei
che anche ai cittadini italiani sia data la stessa opportunità che è
concessa ai cittadini svizzeri, belgi, olandesi
23/09/2006 Eutanasia, la Morte Voluta (Sara Nicoli, http://www.altrenotizie.org)
Signor presidente, mi aiuti a morire; questo mio grido non è di
disperazione, ma carico di speranza umana e civile per
questo nostro Paese". Con la forza che gli resta,
Piergiorgio Welby, co-Presidente dell'Associazione Luca
Coscioni, malato di distrofia muscolare progressiva, ha
registrato un video contenente una lettera aperta al
Presidente della Repubblica. E' una supplica, non il
testamento di un malato terminale che non ha più speranze
e si augura solo di non svegliarsi la mattina: Welby
chiede al Capo dello Stato di farsi promotore della
riapertura del dibattito politico sull'eutanasia. "Perchè,
signor presidente, io vorrei che anche ai cittadini
italiani fosse data la stessa opportunità che è concessa
ai cittadini svizzeri, belgi e olandesi; Montanelli mi
capirebbe, se fossi in un altro Paese potrei sottrarmi a
questo oltraggio estremo, ma sono italiano e qui non c'è
pietà".
Piergiorgio Welby non ricorda con esattezza quando si è
ammalato."Ricordare come tutto sia iniziato non è facile -
racconta - perché la memoria non è accumulazione, ma
selezione e catalogazione. Forse fu una caduta immotivata
o il bicchiere, troppo spesso sfuggito di mano etc. ma
quello che nessun distrofico può scordare è il giorno in
cui il medico, dopo la biopsia muscolare e l'elettromiografia,
ti comunica la diagnosi: Distrofia Muscolare Progressiva.
Questa è una delle patologie più crudeli; pur lasciando
intatte le facoltà intellettive, costringe il malato a
confrontarsi con tutti gli handicap conosciuti: da
claudicante a paraplegico, da paraplegico a tetraplegico;
poi arriva l'insufficienza respiratoria e la tracheotomia.
Il cuore, di solito, non viene colpito e l'esito infausto,
come dicono i medici, si ha per i decubiti o per una
polmonite".
Cronaca asciutta di un percorso che Welby ha però
voluto spiegare a Napolitano con altre parole, quelle dei
suoi sentimenti e dello stato d'animo che accompagna le
sue giornate, punteggiate dai ricordi e dalle sensazioni
di un tempo. "Io amo la vita, Presidente. Vita è la donna
che ti ama, il vento tra i capelli, il sole sul viso,la
passeggiata notturna con un amico. Io non sono né un
malinconico, né un maniaco depresso...morire mi fa orrore,
purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita...è solo un
testardo e insensato accanimento nel mantenere attive
delle funzioni biologiche. Il mio corpo non è più mio...è
lì, squadernato davanti ai medici, assistenti, parenti.
No, non sto invocando per me una morte dignitosa. No, non
si tratta di questo. E non parlo solo della mia, di morte.
La morte non può essere "dignitosa"; dignitosa, ovvero
decorosa, dovrebbe essere la vita". Sgombriamo, dunque, il
campo dagli eufemismi. L'eutanasia non è solo una
questione di dignità. In certi casi è una morte opportuna.
Per chi, come Welby, coglie la concretezza del problema
sulla propria pelle, non ci si trova in presenza di uno
scontro tra chi è a favore della vita e chi è a favore
della morte: "Tutti i malati vogliono guarire, non
morire".
C'è infatti altro dietro alla pervicacia con cui, in
Italia, si nega ad un malato terminale di porre dolcemente
fine ai propri giorni senza lacerarsi l'anima assistendo
inerme alla lenta - quanto talvolta dolorosa -
dissoluzione di se stesso. Senza via d'uscita. E Welby
chiama in causa senza sconti il primo attore di questa
medioevale chiusura al confronto che rende oggi, in questo
paese, impossibile un dibattito politico, laico e sereno,
sul tema eutanasia: il Papa e le sue milizie parlamentari.
Ma ad un malato terminale come Welby, quei muri di omertà
eretti nel nome dell' inviolabilità della vita umana, dal
concepimento fino al suo termine naturale, non possono che
apparire per quello che realmente sono;
strumentalizzazioni politiche finalizzate all'asservimento
dello Stato laico a quello clericale. Infatti, nel video
Welby si chiede, colpendo dritto negli occhi le ipocrisie
cattoliche. "Ma che cosa c'è di naturale in una sala di
rianimazione? Che cosa c'è di naturale in un buco nella
pancia e in una pompa che la riempie di grassi e proteine?
Che cosa c'è di naturale in uno squarcio nella trachea e
in una pompa che soffia l'aria nei polmoni? Che cosa c'è
di naturale in un corpo tenuto biologicamente in funzione
con l'ausilio di respiratori artificiali? Quando un malato
terminale decide di rinunciare agli affetti ai ricordi,
alle amicizie, alla vita e chiede di mettere fine ad una
sopravvivenza crudelmente biologica, io credo che questa
sua volontà debba essere rispettata ed accolta con quella
pietas che rappresenta la forza e la coerenza del pensiero
laico". Non di quello cattolico, a quanto sembra.
Inutile sperare che questo struggente appello a Napolitano
possa trovare sponda. E' noto al Quirinale, quanto a noi,
che le attuali condizioni politiche non consentono in
alcun modo l'apertura di un dibattito politico ampio su un
tema così forte da risultare lacerante per il tessuto
connettivo del Paese più di altre questioni, come l'aborto
o la procreazione assistita. La compagine cattolica,
presente in modo trasversale in parlamento, ha alzato gli
scudi già all'inizio della legislatura, mettendo
chiaramente sul piatto di una maggioranza claudicante i
propri voti in cambio del blocco di qualsivoglia
discussione sulle questioni etiche, intimamente legate, in
questa fase, alla revisione della legge 40: il Papa, da
Oltretevere, non poteva chiedere di meglio.
Ci toccherà, quindi, raccontare ancora di giovani, come
Piergiorgio Welby, che dopo la condanna a morte di una
malattia atroce, hanno sperato che la ricerca li potesse
salvare. "Per anni e anni ho sperato che la ricerca
scientifica trovasse un rimedio - ricorda ormai con un
filo di voce - ma oggi, che le prospettive di una cura,
grazie agli studi sulle cellule staminali, sia adulte che
embrionali, potrebbero trasformarsi da speranza in realtà,
sempre più ostacoli si frappongono sul cammino di una
ricerca libera. Questa malattia non è una maledizione
biblica, è una malattia genetica che può essere sconfitta
grazie alla diagnosi prenatale: i villi coriali, l'amniocentesi
e soprattutto la diagnosi preimpianto...". E chissà quant'altro
ancora.
In Italia ci sono oggi circa 2.000 bambini con
distrofia muscolare Duchenne (i dati sono dell'Istituto
Superiore di Sanità ndr). L'incidenza della
distrofia miotonica, la più comune distrofia muscolare
dell'adulto, è di approssimativamente 135 casi ogni
milione di nascite (maschi o femmine). L'incidenza della
distrofia dei cingoli è di circa 65 casi per milione di
nascite e quella della distrofia facioscapolomerale è
ancora inferiore. Considerando insieme tutte le principali
malattie neuromuscolari ereditarie, verosimilmente ne
risultano colpiti in Italia circa 30 persone ogni 100.000
abitanti, ossia oltre 17.000 persone. "Se delle dispute
capziose, spesso, ideologiche - conclude Welby - dovessero
ritardare la scoperta di una cura e condannare anche un
solo bambino a vivere il dramma che io ho vissuto e sto
vivendo...beh, pensateci! ..". Giorgio Napolitano senza
dubbio, ci penserà.
Il Papa, che non ha mai dubbi, ha altro da fare.
25/09/2006 Il Diritto di morire (Massimo Fini, Fonte: http://gazzettino.quinordest.it, www.comedonchisciotte.org )
La vicenda di Piergiorgio Welby, che
ha scritto al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, chiedendo in
pratica la "grazia" di poter morire in santa pace, è stata configurata come
un caso di eutanasia. Ma in realtà ci troviamo su un terreno del tutto
diverso che non coincide con la questione dell'eutanasia anche se ad essa si
intreccia perchè molto spesso ne è all'origine e meglio è all'origine
dell'emergere del problema eutanasia. Quello sollevato da Welby è infatti un
classico caso di "accanimento terapeutico".
Piergiorgio Welby, sessantenne, malato di distrofia muscolare, una patologia
degnerativa, ha passato metà della sua esistenza senza poter camminare, un
terzo senza poter parlare e negli ultimi mesi non è più in grado di far
assolutamente nulla ed è tenuto in vita da un respiratorie artificiale e da
un'alimentazione forzata. Ma è perfettamente lucido ed in grado di
comunicare la sua volontà.
E la sua volontà è che sia staccata la spina di questi macchinari
eccezionali, che la malattia faccia il suo corso e lo porti alla morte in
modo naturale. Rifiutare quei macchinari è un suo diritto. È fuori
discussione infatti che nessuno possa essere sottoposto a cura contro la sua
volontà. Un malato di tumore, per esempio, può rifiutare la chemioterapia e
anche ogni altro tipo di terapia. È significativo che se lo fa e se la fila
dall'ospedale dove i medici lo vorrebbero internare la direzione sanitaria
gli faccia firmare un documento in cui dichiara di assumersi la
responsabilità di questo suo rifiuto proprio per sollevare i medici dalla
propria, di non aver cioè sottoposto il malato a tutte le cure che
ritenevano opportune (il "diritto alla cura"). Vuol dire che la decisione
ultima spetta al malato, non ai medici che devono sottostare alla sua
volontà. Come esiste un "diritto alla cura" esiste anche un diritto, a
rifiutarla. Diritto superiore al sommo, perchè la vita non è proprietà del
medico ma del malato che si affida - o non si affida - alle sue cure. E
anche se si ritenesse, come i cattolici, che la vita non appartiene nè
all'uno nè all'altro ma a Dio, sarebbe il medico che vuole mantenere
artificialmente in vita il malato, con macchinari eccezionali a violare le
leggi naturali (il diritto a una morte naturale) e quindi divine in nome di
un laicisssimo e modernissimo obbiettivo dell'allungamento della vita a
tutti i costi.
Il caso di Welby è quindi semplice. Ed è del tutto arbitrario che i medici
lo mantengano in vita contro la sua volontà, imponendogli cure che egli non
vuole, o non vuole più, solo perchè Welby non è in grado fisicamente di
ribellarsi loro. Come invece potrebbe fare senza che i medici possano
opporsi colui cui è stato diagnosticato un cancro. E' un grave abuso quello
dei medici perchè scippano Welby del diritto che nemmeno i cattolici possono
contestare, di avere una morte secondo natura.
La questione vera si pone quando il malato, a differenza di Welby, non è in
grado di manifestare la sua volontà. Fra un malato che non può manifestare
la propria volontà e quella dei medici è ovviamente questa a prevalere. Ecco
perchè sarebbe quanto mai opportuna l'approvazione di quella proposta di
legge presentata tempo fa dall'onorevole Luigi Manconi sul "testamento
biologico".Nel testamento biologico, spiega Manconi "ciascuno di noi può
dare disposizioni relative a trattamenti sanitari futuri qualora non sia in
grado di intendere e di volere e può indicare un fiduciario che prenda
decisioni in sua vece". E fin qui siamo sempre fuori dall'eutanasia ma nel
campo dell'accanimento terapeutico, cioé del sacrosanto diritto
dell'individuo a rifiutare le cure. L'eutanasia, o "diritto alla bella
morte" (il termine fu coniato, pare, da Francesco Bacone) è un'altra cosa. È
la pretesa del malato che il medico, o chi per lui, accorci
"artificialmente" la sua vita (con un'azione, per esempio un'iniezione
letale, o con un'omissione, per esempio negandogli il cibo se è ancora in
grado di alimentarsi naturalmente). Siamo qui in una posizione speculare a
quella dell'accanimento terapeutico. Come nell'accanimento si allunga
artificialmente la vita, sottraendo l'individuo alla sua morte naturale in
nome di un altrettanto moderno ed edonistico rifiuto della sofferenza e del
dolore.
E su questa possibilità oggi vietata dal codice penale perchè rientra nella
fattispecie dell'«omicidio del consenziente» che dovrebbe aprirsi oggi il
dibattito. Personalmente e per quanto vale la mia opinione, sono contrario.
Oltretutto è evidente, come dice l'attuale presidente della Commissione
Sanità del Sonato, Ignazio Martini, che se si impedisse l'accanimento
terapeutico anche il problema dell'eutanasia avrebbe un minor rilievo:
"Spesso si è costretti a interrogarsi sull'eutanasia perchè non si è fermato
prima ciò che si configura come accanimento terapeutico".
Del tutto inaccettabile mi pare invece un molto peloso «omicidio per pietà»
senza il consenso del malato o dandolo per scontato in assenza di un
"testamento biologico" e di un fiduciario autorizzato a decidere in sua
vece. Perchè si aprirebbero le strade dell'abisso. Da qui infatti molto
breve è il passo verso quella eutanasia "eugenetica" o economica, di
hitleriana memoria, che prevede l'eliminazione degli handicappati allo scopo
di migliorare la razza o la soppressione degli invalidi e dei vecchi per
alleggerire la società da bocche inutili e costose.
Massimo Fini
Fonte:
http://gazzettino.quinordest.it
25.09.06
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