Malattia, sofferenza, morte: si apre il confronto
sulla libertà di decidere della propria vita. Dubbi obbligatori: al
bando le soluzioni preconfezionate, servono risposte umane, convincenti
e razionali. Da parte di tutti, vescovi compresi.
E ora, non roviniamo tutto, non buttiamo tutto all’aria facendolo
diventare argomento da ‘Bar dello sport’, o da ‘Bar della politica’.
Sarebbe da veri irresponsabili, e a ben vedere anche da idioti. Quegli
idioti che già s’affannano ad affrontare l’argomento della morte, e
della morte nella sofferenza, alla stregua di tutti gli altri temi,
secondo logiche biecamente ed esclusivamente di parte. No, non roviniamo
tutto, ora.
C’è qualcosa su cui riflettere, su cui è cosa buona e giusta riflettere,
perché la sofferenza, la malattia e la morte sono parte della nostra
esistenza: hanno fatto, fanno, potrebbero far parte della vita di ognuno
di noi, e di fronte ad esse non vale scappare, non vale nascondersi, non
vale fuggire. Non vale, e soprattutto non serve a nulla. Meritiamocela,
allora, per una volta, la qualifica di ‘esseri umani’, e usiamola questa
nostra umanità per ascoltare, per comprendere, per saltare il fosso che
ci separa dall’altro. Per vivere emozioni non scontate, per farci
traballare, sconvolgere e pure travolgere. La sofferenza e la morte non
lasciano indifferenti: banditi i timori, serve l’autentico e sincero
coraggio di chi non ha paura di farsi e fare domande scomode, provando a
ipotizzare risposte che siano all’altezza. O che quanto meno ci si
avvicinino.
Piergiorgio Welby chiede di morire, chiede di essere aiutato a morire.
La distrofia muscolare lo sta uccidendo, lui chiede di essere ucciso
prima che la malattia completi la sua opera. Chiede questa libertà, la
libertà di poter decidere di morire, la libertà di poter dire basta a
quella sua vita. Si rivolge al Presidente della Repubblica, che
raccogliendo il suo messaggio con “sincera comprensione e solidarietà”,
vi individua “un’occasione di non frettolosa riflessione su situazioni e
temi di particolare complessità sul piano etico che richiedono un
confronto sensibile e approfondito, qualunque possa essere in definitiva
la conclusione approvata dai più”. C’è in queste parole una saggezza
rara in politica, espressa per lo più in quegli aggettivi, “non
frettolosa” e “sensibile”, che rappresentano essi stessi degli obiettivi
ardui e all’apparenza irraggiungibili. Ma il ‘come’ ci si confronta
diventa, in casi come questi, importante tanto quanto il ‘cosa’ si vuol
dire e sostenere.
Non è un mistero che una certa parte del paese e del Parlamento intenda
giungere ad una legislazione permissiva in tema di eutanasia, che
riconosca il diritto di disporre liberamente di un bene, la propria
vita, che l’ordinamento individua finora come ‘indisponibile’. E alcuni
fra questi personaggi non vedrebbero di cattivo occhio neppure l’ipotesi
di “concedere” la “dolce morte” anche a quanti – travolti dalla
sofferenza – fossero incapaci di manifestare limpidamente il proprio
pensiero. Due le basi di questo ragionamento fondato sull’idea di una
vita diventata ormai “indegna di essere vissuta”: sul lato personale il
tema della libertà sopra ogni altra cosa, fosse anche il tutto, cioè la
propria vita; sul lato sociale il tema (razionalmente debolissimo ma
nella realtà molto efficace: si veda il caso aborto) della riduzione
della clandestinità, della necessità cioè di portare alla luce del sole
e alla legalità quelle situazioni di ‘aiuto alla morte’ che già oggi
avverrebbero in modo diffuso all’interno e all’esterno di ospedali e
case di cura.
Non mancano certo argomentazioni con cui ribattere, ad iniziare dalla
fondamentale differenza che passa fra l’accompagnare qualcuno nella fase
conclusiva della sua esistenza, fino al sopraggiungere della fine, e il
determinarne invece in modo diretto, con scienza e coscienza, la morte.
Argomentazioni di principio alle quali si affianca una certezza di
metodo, verificata da tempo in numerose realtà: se cioè si arrivasse in
tempi brevi ad una buona normativa, da tutti auspicata, sul rifiuto
dell’accanimento terapeutico, e se si investissero realmente risorse
economiche e soprattutto umane sulla “terapia del dolore” e sulle “cure
palliative”, la “bomba” eutanasia in larga misura si sgonfierebbe,
lasciando spazio ad una prospettiva in cui la libertà personale si
legherebbe più facilmente al rispetto per la dignità di ogni essere
umano, ancor più se malato o sofferente.
Nel dibattito che si apre e che fra alti e bassi ci accompagnerà nei
prossimi mesi e anni, sentiremo spesso parlare di principi, di libertà,
di diritti, di doveri. Fra quanti – come faremo anche noi - proporranno
ragionamenti orientati all’affermazione del limite invalicabile
dell’intangibilità della vita umana, qualcuno potrà essere portato ad
avventurarsi nel campo della fede religiosa, e a far discendere dalla
fede in Dio il suo ‘no’ all’eutanasia. Oppure potrà capitare che si
offrano risposte sbrigative o “preconfezionate”, che per quanto
condivisibili (pensate al classico: “La vita è sacra”) sanno essere alla
prova dei fatti solo terribilmente gelide e impalpabili. Scatenando
inevitabilmente reazioni opposte a quelle che vorrebbero causare. La
speranza è che di questo siano consapevoli tutti. E che lo siano, fra
chi ha maggiori responsabilità, anche i parlamentari cattolici (troppo
spesso incapaci di illustrare perfino le motivazioni che stanno alle
base delle loro opinioni e dei loro voti) e gli stessi vescovi italiani,
la cui voce su questi temi troppo spesso appare ai più venata di
autoritarismo, più che di comprensione. Si può far molto, e molto bene,
su questo versante.
Su malattia, sofferenza e morte i dubbi sono legittimi, quasi
obbligatori. E’ per questo che non ci si può accontentare di risposte da
quattro soldi. Ne servono di limpide e razionali, convincenti non solo
nelle aule universitarie, ma anche in quelle di ospedale. Le aspettiamo
tutti
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