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09/12/2009 Principi di economia privatista (Avv. Prof. Filippo Matteucci)

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(Autorizzo, se interessa, la pubblicazione di questo mio articolo, che allego anche in formato .doc. Avv. Prof. Filippo Matteucci)

Il fallimento sia dell’economia pianificata sovietica, finita in miseria, mafia e prostituzione, sia dell’oligopolio statalista e dirigista tipico delle democrazie formali delegate, impone un rovesciamento, una rivoluzione copernicana del modo di pensare e strutturare la scienza economica. Se qualcosa non funziona in un sistema socioeconomico vuol dire che i governanti hanno commesso uno o più errori, che a un dato bivio pregresso è stata imboccata la strada sbagliata.

Quanto ora detto vale a maggior ragione per l’Europa. Fino a meno di cento anni fa l’Europa, intesa come megasistema sufficientemente omogeneo di civiltà costituito dall’insieme dei Regni che la componevano, era la padrona del mondo, colei che aveva “la migliore probabilità di vittoria nella corsa allo sfruttamento delle ricchezze del globo”, per usare le parole dello Schmerb. I due decisivi errori al bivio che hanno portato quella che fu la Grande Europa all’attuale declino sono stati la svendita a poco prezzo dell’Impero Britannico e l’assunzione a principio di scienza del keynesianesimo.

L’inutile caparbietà di un Churchill nel non accettare le offerte di pace di Hitler nel 1940-41, portò il premier inglese a cedere l’immenso Impero Britannico agli USA in cambio del loro intervento militare. Non fu un grande affare. Suoi predecessori, da Addington a Disraeli, dimostrarono in momenti difficili ben altra lungimiranza: seppero prendere tempo e aspettare. Futuri storiografi, indipendenti da poteri e interessi odierni, giudicheranno la scelta di Churchill. Per l’Europa fu l’inizio della fine. Un Roosevelt frettolosamente desideroso di risparmiare soldi, tempo e vite umane statunitensi volle regalare una parte non irrilevante dell’ex Impero Britannico e metà dell’Europa al più sanguinario e squilibrato tiranno del Novecento, il comunista Stalin. Il resto è storia, risaputa ed evidente: oggi l’Europa non è più assolutamente in grado di contrastare politicamente, economicamente e militarmente i veri padroni del mondo, nemmeno quelli emergenti.

Al di là delle considerazioni storiche, quello che mi preme denunciare nel presente articolo è il formalismo dell’economia keynesiana, l’economia del clientelare e parassitario tassa e spendi, l’economia di carta dei ragionieri di regime, un patetico castello di carta di falsità spacciate nelle scuole e nelle università come verità accademiche. Il keynesianesimo è la teoria economica di facciata, di regime, perché a qualcuno, o a molti, così fa comodo che sia.

Il keynesianesimo è il braccio armato dello statalismo in economia, è la trasposizione nel campo delle scienze economiche dell’orientamento al presente che caratterizza le tirannie oligarchiche travestite da democrazie formali delegate. Dopo Keynes la scienza economica è divenuta una scienza formale, mistificante, inducente all’errore. L’architettura keynesiana sia della scienza economica sia dei sistemi economici è stata ufficializzata, accademizzata, assurta al rango di principio scientifico, e adottata perfino dai suoi detrattori, venendo così a costituire una sorta di trappola mentale, di blindatura del pensiero ossequiente. E nemmeno è da imputare tutto questo al povero Keynes, un modestissimo economista, imbranato nelle sue fallimentari speculazioni di borsa, salvato dall’insolvenza da una colletta dei suoi amici… Sono i suoi interessati epigoni, al servizio delle oligarchie, che hanno visto nell’elementare e irreale architettura keynesiana la base per un’organizzazione predatoria e illiberale dei sistemi economici.

L’uscita dalla cieca visione keynesiana va utilmente accompagnata dal ribaltamento del postulato marxista secondo il quale l’economia costituisce la struttura della società, e il resto delle interazioni umane (cultura, politica, ecc.) sono solo sovrastrutture determinate dai rapporti economici. Lo sfruttamento economico è solo un aspetto, certo non marginale e sicuramente deteriore, di quei rapporti di potere in cui una delle parti è un potente d’infima qualità. In realtà la vera struttura della società umana è il rapporto etologico di potere dominante – dominato. Tale modello esplicativo è ben più onnicomprensivo di qualsiasi altro perché basato sull’intrinseca natura dell’homo sapiens, prescinde dalle inutili illusioni consolatorie di chi non è intimamente attrezzato per affrontare la lotta per la migliore sopravvivenza, e ben contrasta i narratori interessati di favole menzognere.

I primi elementi da analizzare sono quindi i processi e le cause d’instaurazione del rapporto dominante - dominato e le modalità e gli strumenti della sua conservazione. E’ impossibile dare una visione vera, sostanziale dell’economia prescindendo da tale rapporto di potere: i rapporti economici sono conseguenze dei rapporti di potere, e non viceversa. Chi tenta di raccontarci un’economia avulsa dal rapporto dominante – dominato ci sta mentendo per proteggere il portafoglio e i redditi di chi lo paga, vuole confonderci e fuorviarci, mira a illuderci rinchiudendoci in una concezione falsata dei sistemi economici. Come un falsario che cerca di rifilarci una banconota da lui stampata, ci fornisce a nostro svantaggio una “scienza” economica formale, inautentica, interessatamente falsa.

Nella prospettiva del rapporto etologico dominante – dominato, è sostanziale tutto ciò che descrive correttamente la realtà di asservimento del dominato al dominante.

E’ sostanziale e decisiva l’analisi della qualità del dominante. Colui che si impone per i suoi meriti e le sue capacità viene spontaneamente riconosciuto come dominante, e cura la qualità della vita dei dominati come se costoro fossero suoi beni. Al contrario, il dominante d’infima qualità, quello che si impone con la violenza, col crimine, col furto, con l’inganno, col tradimento mantiene i governati nelle peggiori condizioni possibili, perché sa che peggiore è la qualità di vita dei governati, tanto meglio è per lui, il suo scranno e la sua greppia saranno più sicuri.

Il dominante che non viene riconosciuto come “signore” per le sue virtù, ma che impone il suo dominio con la forza bruta necessariamente e intrinsecamente unita alla slealtà e alla menzogna propagandata, ha bisogno di ideologie formali, false, per nascondere che il suo potere è contro il diritto naturale. E ha bisogno, per evitare che lo eliminino, di mantenere i suoi servi ignoranti, stupidi, abbrutiti e proletarizzati.

E’ formale e inautentico tutto ciò che viene usato per instaurare in modo ingannevole il rapporto dominante – dominato, magari sovvertendo equilibri politici preesistenti. Il classico esempio storico di una tale situazione è dato dalla rivoluzione francese, dai banchieri parigini che, perpetrando un imbroglio, una truffa iniziale, mandavano i sanculotti a morire promettendo loro quelle liberté egalité et fraternité assolutamente mai realizzate, né allora né in seguito, in nessun paese e in nessuna epoca storica, semplicemente perché impossibili, contrarie alla naturale interazione sociale dell’essere vivente “uomo”.

Formale e plagiante è tutto ciò che viene usato dal dominante non spontaneamente riconosciuto per mantenere il potere, attraverso la pianificazione delle vite dei dominati, il controllo sulle loro menti, sulle loro pulsioni e sulle risposte da dare a tali pulsioni, come sono formali la strutturazione dello stato e quella del sistema economico strumentali a tale finalità di perpetuazione di un potere scadente e imposto.

Formale e plagiante è ciò che viene fatto credere dai dominanti qualitativamente peggiori ad un popolo di dominati ridotto o lasciato privo di strumenti culturali e di identità, e quindi indifeso di fronte a tale ondata di menzogne. Il formalismo è perciò uno strumento di controllo sociale, serve a deviare i processi di pensiero e le credenze diffuse dei dominati. Esso è strumento simile ma non uguale alla propaganda di regime. In quest’ultima infatti il regime si mostra e viene riconosciuto come tale, quindi, per definizione e per sua natura, tirannico, illiberale, antidemocratico, predatorio. In un regime l’antidemocraticità è quindi conclamata, e vi è un’opposizione, sia essa costituita da una minoranza di ribelli o di intellettuali, oppure dalla maggioranza della popolazione tenuta sotto con la violenza. Al contrario, nelle tirannie oligarchiche travestite da democrazie formali delegate ciò che è formalmente conclamato è proprio la democraticità, comprovata da formali elezioni sostanzialmente controllate e pilotate. Una scienza economica che ignori tale formalismo e ne prescinda nega a priori il suo essere scienza, divenendo essa stessa formale, di regime.

L’economia vera è la scienza dei ceti produttivi, intesi come famiglie private capaci di organizzare se stesse e il proprio lavoro per produrre, accumulare, conservare e accrescere ricchezza. Sono le famiglie appartenenti ai ceti produttivi che producono ricchezza, non lo stato: lo stato ruba ricchezza alle famiglie di lavoratori per darla a beneficiari privati designati arbitrariamente. Centro del sistema economico è la fa

miglia privata quale soggetto produttore, non i numeri e i conteggi. L’economia formale di regime limita volutamente il suo campo agli aspetti quantitativi, per giunta impostandoli in modo arbitrario e falsificante. L’economia privatista ha invece come primo oggetto l’aspetto qualitativo, soggettivo, personalistico e familiare insieme, dinastico, tecnologico, dell’accumulazione di ricchezza, dell’aumento della ricchezza esistente, un know how onnicomprensivo, esistenziale, tramandato di padre in figlio, nell’ambito delle relazioni di potere presenti a livello locale o globale. Si può affermare, come regola suscettibile di eccezioni, che queste relazioni di potere si presentano come limitazioni ed ostacoli a quella famiglia privata che voglia accrescere la sua ricchezza basandosi solo sui suoi meriti e capacità e contando solo sulle proprie forze. Per tale famiglia di lavoratori lo stato, quale apparato in mano ad altre famiglie private (quelle dei padroni del momento), rappresenta il primo nemico, così come suoi primi nemici sono le famiglie dei padroni dello stato. Le famiglie padrone dello stato e lo stato loro strumento e proprietà appaiono alla famiglia di lavoratori come un unico moloch predatorio avverso e odiato. Pur tuttavia tali “stataliste” limitazioni, ostacoli, balzelli, pericoli e ostilità che la famiglia di lavoratori incontra nel suo operare economico devono essere oggetto della scienza che studia l’accumulazione della ricchezza. Altrimenti tale scienza è una scienza formale, finta, ingannevole, organizzata per ingannare. Vi sono due basilari concetti economici che dimostrano meglio di altri il formalismo, la falsità delle teorie economiche accademizzate, di regime:  il P.I.L. e l’inflazione.

Il P.I.L., o prodotto interno lordo, è una grandezza contabile che diviene strumento d’inganno quando viene usata come misuratore del livello di ricchezza dei cittadini e/o della qualità di vita.

Se chiedo a una qualsiasi persona sensata “Quanto sei ricco?” nessuno mi risponderà “Quest’anno ho prodotto 1000 euro in più dell’anno precedente”. Al contrario, tutti mi faranno un quadro del loro stato patrimoniale, sommando il valore dei loro beni immobili e mobili: case, terreni, imprese, risparmi, BOT, obbligazioni, azioni, fondi, crediti, gioielli, opere d’arte e d’antiquariato, e quant’altro. Questa è la ricchezza privata esistente in una famiglia, frutto del lavoro e del risparmio di generazioni. Se sommiamo le ricchezze di tutte le famiglie italiane alle ricchezze di proprietà degli enti pubblici (stato, comuni ecc.) abbiamo la ricchezza nazionale, l’unico vero indicatore della ricchezza di un paese. Il tanto sbandierato P.I.L. invece altro non rappresenta che quanta ricchezza nuova è stata prodotta (o distrutta se negativo) in un anno. Il P.I.L. è la variazione annua dello stock di ricchezza esistente, quindi solo una variazione, relativamente trascurabile, quasi ininfluente, e non misura assolutamente la ricchezza di un paese. Può essere paragonato al risultato di un conto economico. Ma mentre per un’impresa il risultato di gestione può avere una certa rilevanza quantitativa in rapporto allo stato patrimoniale, per un’intera nazione e per le singole famiglie private che la compongono il valore del rapporto tra la nuova ricchezza prodotta nell’anno e la ricchezza accumulata esistente è nettamente inferiore, quantitativamente secondario.

Ma il bello è che i controllati mass media di regime, per venirci a raccontare se il paese va bene o va male, nemmeno fanno riferimento al P.I.L., questa trascurabile variazione della ricchezza esistente, ma alla variazione del P.I.L., cioè alla variazione della variazione! Quindi a un dato infinitesimale, assolutamente irrilevante.

Usare il P.I.L. o addirittura la sua variazione per misurare la ricchezza di una nazione è una presa per i fondelli. A nostro uso e consumo. E vi è un motivo ben preciso per il quale questa presa in giro viene messa in atto. Utilizzare il P.I.L. o la sua variazione per misurare la ricchezza serve a nascondere un altro dato, di dimensioni gigantesche, del quale nessuno parla e nessuno deve parlare.

Abbiamo visto che lo stock di ricchezza esistente, il vero misuratore della ricchezza stessa, è formato da beni immobili e da valori mobiliari: BOT, BTP, depositi, obbligazioni, crediti, liquidità: i valori mobiliari sono nominali, cioè espressi e definiti in moneta. Nella storia dell’uomo civile, la vera moneta è sempre stata d’oro o di altro metallo prezioso, è intrinsecamente un pezzo d’oro sul quale è inciso il suo peso, garantito dal governante o da un emittente di riconosciuto prestigio. Ma la nostra moneta, quella che gli odierni dominanti c’impongono col corso forzoso, non è oro, bensì carta stampata, carta straccia. E’ una moneta fittizia, formale, nemmeno convertibile in oro.

Basta stamparne di più, troppa, e perde subito di valore, di potere d’acquisto, e con essa perde di valore tutta quella parte mobiliare del nostro patrimonio espressa in moneta. Un eccesso di carta moneta provoca l’inflazione, cioè l’aumento generalizzato del livello dei prezzi. Ciò vuol dire che quella parte del patrimonio delle famiglie (e del paese) definito in termini monetari (BOT, depositi, risparmi ecc.) perde potere d’acquisto, si riduce: questa riduzione è ricchezza che viene sottratta alle famiglie.

Un esempio numerico chiarirà il processo di confisca sotteso. Se il mio patrimonio è composto per 200.000 euro dalla casa dove abito e per 100.000 euro dai risparmi miei e dei miei genitori, poco m’importa se quest’anno ho guadagnato 1000 euro in più dell’anno scorso. Un’inflazione reale al 10% annuo mi divora in un anno ben 10.000 euro di potere d’acquisto: i miei 100.000 euro di risparmi dopo un anno sono divenuti, a prezzi costanti, 90.000. Mi hanno derubato, attraverso l’inflazione, di ben 10.000 euro! Facciamo le dovute proporzioni quantitative: un conto sono i 1000 euro di aumento del mio “P.I.L.”, un altro conto è la diminuzione del mio patrimonio, della mia ricchezza privata, in termini di potere d’acquisto, di ben 10.000 euro. E’ irrilevante quanto io ho prodotto in più rispetto all’anno precedente; è invece molto rilevante quanto il mio patrimonio privato sia stato depredato dall’inflazione, dall’inflation tax. Dopo un anno, ho sempre lo stesso immobile (invecchiato di un anno) e un potere d’acquisto dei miei soldi risparmiati diminuito del 10%. E l’anno successivo la depredazione si ripeterà, e così per ogni anno a venire.

Viene da chiedersi perché nessun economista di regime parla di queste cose e in questi termini. La risposta è semplice: l’inflazione è il principale strumento di redistribuzione occulta della ricchezza esistente, a favore dei soggetti e delle famiglie che controllano lo stato. Provocare inflazione attraverso un eccesso di carta moneta ha lo stesso effetto di una pesantissima imposta patrimoniale sulla parte mobiliare dei patrimoni delle famiglie: serve a sottrarre ricchezza mobiliare a chi se l’è sudata, ai lavoratori, ai risparmiatori. Serve a proletarizzare le famiglie dei dominati. Questa ricchezza viene sottratta, non distrutta: va a finire in altre tasche private attraverso i meccanismi della spesa pubblica.

Ogni spesa pubblica è, almeno potenzialmente, un furto legalizzato di ricchezza perpetrato ai danni dei cittadini e a favore dei soggetti beneficiari della spesa pubblica medesima, beneficiari determinati arbitrariamente da chi detiene il potere. Il gruppo coalizzato di famiglie di dominanti che ha acquisito il controllo su stato, fisco e istituto di emissione della moneta ha tre vie primarie per rubare ricchezza alle altre famiglie tramite una nuova spesa pubblica. Queste tre vie primarie differiscono tra loro per la modalità di finanziamento di tale nuova spesa. La si può finanziare aumentando il debito pubblico: lo stato si indebita prestandosi i soldi da altri soggetti e dando loro in cambio BOT, BTP, CCT ecc., e i cittadini dovranno poi, in qualche modo e di tasca loro, pagare tali debiti. La si può finanziare tassando redditi, patrimoni, trasferimenti e quant’altro. Oppure si può finanziare la nuova spesa pubblica stampando nuova ulteriore carta moneta.

La moneta cartacea in circolazione, priva di valore intrinseco, rappresenta, indipendentemente dalla sua quantità, il potere di acquistare i beni offerti o offribili sul mercato. Un aumento della quantità di moneta cartacea non accompagnato da un corrispondente aumento dell’offerta di beni si risolve in un aumento dei prezzi, cioè in inflazione. Il livello dei prezzi è quindi ben rappresentato dal rapporto tra la quantità di carta moneta e i beni offerti od offribili sul mercato, e, in ultima analisi, dal rapporto tra quantità di moneta e stock di beni esistenti.

La differenza tra la moneta cartacea e la moneta di metallo prezioso o convertibile in metallo prezioso sta nel fatto che la moneta cartacea è aumentabile all’infinito, la moneta d’oro o convertibile in oro no, in quanto vincolata alla quantità di riserve auree dell’emittente. Oggi, in regime di corso forzoso della moneta cartacea, detenere parti consistenti del proprio patrimonio in liquidità o valori mobiliari (BOT, depositi, ecc.) vuol dire mettere il destino della propria ricchezza nelle mani della discrezionalità e della bontà d’animo dei dominanti, delle famiglie che controllano lo stato.

Costoro possono destinare alle loro tasche o a quelle di amici e clientes porzioni della ricchezza mobiliare dei cittadini semplicemente aumentando la quantità di carta moneta e finanziando con essa una spesa pubblica pilotata. Un aumento della spesa pubblica finanziato stampando carta moneta provoca inflazione e quindi perdita di valore della parte mobiliare, monetaria dei patrimoni dei cittadini.

Tale ricchezza rubata finisce nelle tasche dei destinatari della nuova spesa pubblica: per questi beneficiari tale ricchezza acquisita, ancorché svalutata, è pur sempre ricchezza nuova, aggiuntiva; perciò costoro si arricchiscono indebitamente, mentre coloro che i soldi se li erano sudati e risparmiati vengono derubati e resi più poveri. L’utilizzo della carta moneta, la sostituzione della moneta aurea con la moneta di carta straccia, è quindi l’arma del delitto, forse il principale mezzo tramite il quale i dominanti tentano di assicurarsi la perpetuazione della loro permanenza al potere. La moneta è sì anche il mezzo attraverso cui la schiavitù si commercializza nello scambio di mercato lavoro contro salario, ma in tale ambito il rapporto di sfruttamento datore di lavoro – lavoratore  è mediato e attenuato proprio dal mercato. Non è quindi tramite il mercato che si realizza il grosso dello sfruttamento, l’appropriazione della ricchezza creata dal lavoro altrui, bensì tramite lo stato – fisco – emittente (diretto o indiretto) di carta moneta, per mezzo dell’inflazione, della tassazione e dell’indebitamento pubblico.

Per verificare quanto affermo, basta paragonare il prezzo dell’oro con un prezzo – indice delle commodities. Tale indice internazionale delle materie prime costituisce infatti un misuratore dell’inflazione, ancorché grossolano, ben più veritiero degli indici governativi. Il prezzo dell’oro rapportato al prezzo – indice delle materie prime altro non rappresenta che il potere di acquisto che avrebbe avuto una moneta d’oro di un’oncia. Il rapporto tra il prezzo di un’oncia d’oro e l’indice Dow Jones UBS Commodities, era un anno fa 680,7/173.562 = 3,922. Oggi è 916/214,31 = 4,274.

L’inflazione della moneta d’oro sarebbe stata inesistente, e i risparmi e i salari delle famiglie più che tutelati. Quindi abbiamo inflazione perché la nostra ricchezza mobiliare non è espressa, sostanziata e tutelata da una moneta d’oro con valore intrinseco, ma da una moneta di carta straccia che i dominanti possono stampare a ruota libera, svalutando quella in nostro possesso. E questa formidabile depredazione dei patrimoni privati delle nostre famiglie è un fatto, concretissimo, non chiacchiere da telegiornale o da talk show.

E’ sostanza, non forma. Eppure siamo indotti a prestare più attenzione a telegiornali e talk show che al nostro privatissimo impoverimento causato da tale depredazione, presentataci come inevitabile o addirittura normale e benefica per l’economia. La nostra attenzione viene deviata, distratta, e questo dovrebbe essere per noi il segnale che c’è qualcosa che non và. Non penso che saremo in grado di porre un valido rimedio, o almeno un argine, a tale continua depredazione, a tale inesorabile impoverimento delle nostre famiglie studiando i libri di Keynes o, che è lo stesso, i depliant delle offerte dei centri commerciali.
Avv. Filippo Matteucci

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